Nelle pieghe delle storie di violenza familiare ci sono i bambini. Nascosti, poco raccontati, poco ascoltati. Eppure i bambini vedono e sentono tutto: si chiama violenza assistita. E vede i bambini prima spettatori silenziosi dei maltrattamenti, psicologici e fisici, subiti dalle loro mamme, poi magari all’improvviso protagonisti di gesti eclatanti.

Violenza assistita: cos’è

Com’è successo ad Alex Pompa, il 19enne che un anno e mezzo fa a Torino ha ucciso il padre per proteggere la madre: è stato assolto, il pm aveva chiesto per lui 14 anni di carcere. E come è successo, con conseguenze meno drammatiche ma non certo meno devastanti, ai figli di Alessandra Fontana, che oggi ha 52 anni. I suoi ragazzi, ormai maggiorenni, per due volte da piccoli l’hanno salvata dalle aggressioni del compagno: oggi sono in psicoterapia, ma uno di loro non vuole vedere la madre. Alessandra va nelle scuole a raccontare la sua storia, per far capire ai ragazzi cosa significhi vedere e subire abusi in famiglia. Il 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, Alessandra Fontana sarà con noi.

Diretta Instagram il 25 novembre sulla violenza assistita

Guarda il video della diretta Instagram del 25 novembre: abbiamo raccontato la storia di Alessandra e dei suoi figli e di come le torture psicologiche, fisiche ed economiche possono essere messe in atto anche da uomini colti e con un’ottima posizione, a riprova che la violenza non abita solo in ambienti degradati. Con noi anche la dottoressa Maria Serenella Pignotti, pediatra che da più di 20 anni segue bambini cresciuti con un padre maltrattante e ha condotto numerosi studi sulle conseguenze a lungo termine sulla loro salute psicofisica.

Le conseguenze della violenza assistita sulla salute dei bambini

Enormi sono i danni dell’esposizione alla violenza sullo sviluppo psicofisico dei bambini, a partire dai primi mesi di vita intrauterina, come dimostrano ricerche ventennali. L’American Academy of Pediatrics ha studiato l’impatto dello stress sulle strutture cerebrali, dalla gestazione all’età adulta. L’ansia e la depressione vissuti dalla mamma in un clima di violenza si trasmettono al figlio e lo stress, se cronico, diventa tossico. Il rischio è di sviluppare, fin da piccoli, bassa autostima, aggressività, difficoltà di gestione della rabbia, bullismo. E poi, da adulti, depressione malattie cardiovascolari, epatiti, cancro del fegato, asma, malattie autoimmuni.

La violenza assistita è un fenomeno sommerso

Perché la violenza assistita è un fenomeno sommerso, di cui si parla troppo poco, e perciò capace di costruire una cappa di dolore muto intorno ai bambini. Le storie delle donne che abbiamo raccolto in collaborazione con l’Udi (Unione Donne Italiane) raccontano in parte questo fenomeno. Ognuna di loro andrebbe incontrata e ascoltata, per capire veramente la portata del fenomeno.

Serena Vittorini – Parallelo Zero
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Per ferire me tratta male le bimbe «L’affidamento congiunto è stato un problema, lui mi faceva una serie di ripicche a discapito delle nostre figlie. Oggi sono 2 mesi che non le vede. Una delle bambine lo ha chiamato per sapere perché. Questa la loro conversazione. – Papa , mi potevi venire a prendere un altro giorno. – Mamma non ti avrebbe fatto venire e poi tu non vuoi venire a dormire da me. Se non ti vado bene come padre non so che dirti. – Vienimi a prendere a qualsiasi ora, l’importante e  che stiamo insieme. – E falla finita, tu neanche mi vuoi bene».
Serena Vittorini – Parallelo Zero
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Minacciava di togliermi i bambini
«Faceva quello che voleva. Entrava in camera e non gli interessava se stavo male o ero stanca: “Leva i vestiti, voglio fare l’amore”. Mi diceva di stare zitta, che ero venuta dal Marocco in Italia per cucinare e pulire. Mi picchiava, anche quando ero incinta, mi minacciava con un coltello. Mi diceva che, se avessi chiamato i Carabinieri, avrebbe preso i bambini e mi avrebbe lasciata sola. Anche i miei figli stavano male: a scuola non giocavano, non parlavano. Hanno pagato con me, ma mi sono sentita dire che era colpa mia perché non lo avevo denunciato».
Serena Vittorini – Parallelo Zero
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Per il giudice sono una moglie isterica
«Mi ha fatto lasciare il lavoro da architetto perché dovevo badare alla casa e ai figli, rassicurandomi che avrebbe pensato lui a noi. Così non e  stato. Da quando gli ho comunicato la decisione di separarmi, cerca di annullarmi come persona e mette i bambini contro di me dicendo che e  colpa mia se non stiamo piu  insieme. Mi ha fatto seguire per 3 mesi dagli investigatori privati, voleva controllarmi e mettere in discussione la mia figura di madre. Quando l’ho scoperto, il giudice mi ha deriso definendomi una moglie isterica».
Serena Vittorini – Parallelo Zero
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Ho visto il viso di mia figlia pieno di sangue «Per 25 anni di matrimonio ho sempre giustificato lui e messo da parte me. Parolacce, offese, schiaffi: mi screditava e screditava i nostri figli. Ci guardava con odio. Prendeva dei farmaci per stare calmo, e io avevo imparato a smontare la sua pistola perché ero terrorizzata, sapevo che lui era capace di tutto. Ha aggredito me e mia figlia, ho visto la faccia di mia figlia piena di sangue: questo mi ha dato la forza di reagire e chiamare i Carabinieri. Mi ha tolto tutto, non solo le cose materiali, ma le cose in cui credevo: l’amore, la famiglia».
Serena Vittorini – Parllaelo Zero
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Mi ha annientata. Non sapevo più chi fossi «Mi rendo conto ora, dopo 10 anni, che sono stata manipolata. Ha fatto leva sul mio bisogno di affetto e di sicurezza mettendo in atto un corteggiamento serrato, ma poi si e  rivelato essere un carnefice. Mi ha spaccato la faccia, ho una placca di titanio nell’orbita. Mi spegneva le sigarette sulla lingua: “Mastica e ingoia”. Mi colpiva nei punti giusti e con i guanti da palestra, che rompevano le ossa senza lasciare il segno. Ero annientata, non sapevo più chi fossi: ho avuto solo l’istinto di sopravvivere per me e per mio figlio».

Non è vero che “un padre è sempre un padre”

«Se non ci fosse stato mio figlio a mettersi in mezzo io sarei morta». «I miei bambini a scuola non giocavano, non parlavano, non interagivano: hanno pagato con me». «Ho fatto delle foto ai bambini: la testa ferita, la schiena sulla quale lui aveva rotto una scopa. Sono solo alcuni ricordi delle violenze che ci ha fatto». «Ha aggredito me e mia figlia, ho visto la faccia di mia figlia piena di sangue e questo mi ha dato la forza di reagire e chiamare i carabinieri». Sono i racconti di alcune delle donne che vedi in queste pagine: hanno accettato di farsi ritrarre dalla fotografa Serena Vittorini e, protette dall’anonimato per motivi di sicurezza, di rivelare le loro storie. Storie molto più diffuse di quanto si pensi e che dimostrano una verità finora troppo spesso ignorata: le vittime delle violenze in famiglia non sono solo le mogli, ma anche i figli. «Un marito violento non può essere un buon padre. Da tante donne mi sono sentita dire che il compagno era pessimo con loro però si comportava bene con i bambini. Ma è impossibile che un uomo che costringe i suoi figli ad assistere sistematicamente alla violenza sia un buon genitore» dice forte e chiaro il magistrato Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, al vertice dell’istituzione preposta alla promozione dei diritti dell’infanzia in Italia. Per anni è stata presidente del Tribunale per i minorenni di Trieste e si è sempre occupata di famiglia. Spesso di quel che resta della famiglia eppure viene considerata sempre tale. «In Italia, anche in presenza di denunce per violenza, si tende a pensare che un padre sia sempre un padre e che quindi il comportamento maltrattante non condizioni la capacità genitoriale. Vale per i giudici, che in molte cause di separazione stabiliscono l’affido congiunto nonostante il bambino non voglia vedere il papà. E vale per le donne: di frequente le madri stesse non si rendono conto del clima in cui vivono con i figli perché la violenza, quando è sistematica, rischia di diventare normale. Le donne non la riconoscono su di sé, perciò faticano a vederla sui bambini. E a quel punto diventano trascuranti».

Violenza assistita: la seconda forma di violenza sui figli

L’incuria è la prima forma di violenza sui figli, la seconda è la violenza assistita. I bambini che la vivono sono moltissimi, vittime nel 94% dei casi dei padri, come rivela l’ultimo rapporto di Save the Children. Eppure solo un italiano su 6 sa di cosa si tratti e perfino nei tribunali i giudici sono spesso incapaci di decifrarla. Lo rileva uno studio appena concluso in Commissione femminicidio sulle parti coinvolte nel processo civile, dai giudici ai consulenti tecnici d’ufficio agli assistenti sociali: ovvero le persone che, in un’udienza di affido, decidono sul benessere del minore. La preparazione è maggiore nelle grandi aree metropolitane, minore nei piccoli centri, e questa mancanza di cultura penalizza gravemente i bambini. «Nelle cause di separazione troppe volte la violenza tra coniugi si riduce a conflitto di coppia. E così quella assistita scompare del tutto» spiega Garlatti. «Inoltre, per automatismi e tempi diversi dei procedimenti civili e penali, eventuali denunce a carico del partner non sempre emergono. Risultato: il bambino viene affidato a entrambi i genitori o si riconosce comunque il diritto di visita al genitore violento, anche se il figlio non vuole vederlo»

L’uso strumentale dell’affido congiunto

Alla base di tutto ciò c’è un malinteso senso di tutela del diritto alla bigenitorialità stabilito dalla Convenzione Onu dei diritti del bambino. «La stessa, però – prosegue la dottoressa Garlatti – sostiene anche che il piccolo può avere diritto a essere allontanato dal genitore violento. La bigenitorialità a tutti i costi non tutela l’interesse del minore, che dovrebbe invece avere la priorità su tutti gli altri». E così accade che i padri violenti utilizzino l’affido congiunto per continuare a esercitare il controllo sulla ex compagna, a discapito dei figli e del loro reale interesse. Cosa significhi nella vita quotidiana lo racconta la testimonianza di una bambina raccolta a Roma da un’operatrice Child Care di We World, associazione impegnata da 20 anni nella tutela delle donne vittime di violenza e dei loro figli: «Quando vedo papà, parla sempre male di mamma e vuole sapere dove va e con chi si incontra. Mi dice che ora sono io che devo controllare che lei si comporti bene, altrimenti lo fa arrabbiare. Non so mai cosa rispondere alle sue domande, perché ho paura di sbagliare qualcosa. Papà urla a mamma che è una puttana, che va con tutti mentre lui non c’è. Io ho cercato di spiegargli che mamma sta sempre con me, ma lui non mi crede e le sputa».

La violenza come causa di esclusione dell’affido condiviso nel nuovo disegno di legge

Qualcosa però a livello legislativo sta cambiando. Al Dipartimento Pari opportunità è pronto il nuovo Piano strategico nazionale anti-violenza che parte proprio dalla formazione di chi lavora nei casi di abusi in famiglia: l’obiettivo è introdurre la violenza di genere come causa di esclusione dell’affido condiviso. Sulla stessa scia si muove un disegno di legge pronto al Senato a prima firma della senatrice Valeria Valente, per cui i giudici, quando dispongono affidamento e incontri, devono considerare eventuali comportamenti violenti. E, in questi casi, sospendere gli incontri almeno finché il genitore non avrà seguito corsi per uomini maltrattanti e abbia dimostrato di essersi ravveduto.

Servono i corsi per uomini e padri maltrattanti?

Si è discusso se un padre possa essere obbligato a seguire un percorso terapeutico. «I tribunali per i minorenni – osserva Garlatti – sono in prevalenza favorevoli perché ciò che conta è l’interesse del bambino, anche se una sentenza della Cassazione, rimasta isolata a quanto mi consta, ha stabilito che il genitore non possa essere sottoposto a trattamento medico senza il suo consenso. Io penso che il tentativo di recupero vada sempre fatto: il vero problema è che il padre raramente ha coscienza che la sua condotta è pregiudizievole».

L’Italia condannata perché non protegge i bambini e le donne

L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per inosservanza della Convenzione di Istanbul sulla protezione delle donne e dei bambini dalla violenza. Il trattato è stato ratificato nel 2013, siamo stati tra i primi Paesi a farlo, ma viene spesso ignorato nelle sentenze. «Una condanna riguarda il caso, avvenuto in provincia di Udine, di un padre che ha ucciso il figlio che difendeva la madre: la Corte europea ha rilevato che è stata la sostanziale passività delle autorità italiane ad aver creato un contesto favorevole alla ripetizione di questi atti di violenza. L’Italia è stata richiamata perché tollera fatti indicativi di un’attitudine discriminatoria verso la vittima in quanto donna».

Oggi un bambino può costituirsi parte civile

Eppure le leggi ci sono. «Fino al 2019 la presenza di un bambino, diretta o indiretta, mentre un genitore commette violenza sull’altro, era considerata un’aggravante di questo reato. Dal 2019, quando è stato introdotto il Codice Rosso, il bambino è vittima diretta quanto la donna, quindi può costituirsi parte civile» sottolinea Garlatti. «Ora finalmente secondo la legge, e come affermava la Cassazione sin dal 2010, vivere in un contesto di violenza vuol dire subirla».

Un’emergenza sommersa: i dati

In quasi la metà dei casi di violenza domestica (48,5%) i figli hanno assistito direttamente ai maltrattamenti, percentuale che supera la soglia del 50% al Nord-Ovest, al Nord-Est e al Sud. Nel 12,7% dei casi, inoltre, le donne dichiarano che i bambini sono stati a loro volta vittime dirette dei soprusi dei loro padri. I dati sulle condanne con sentenza irrevocabile per maltrattamento in famiglia – più che raddoppiate negli ultimi 15 anni (dalle 1.320 nel 2000 alle 2.923 nel 2016) – evidenziano che nella quasi totalità dei casi (94%) i condannati sono uomini, e che la fascia di età maggiormente interessata è quella tra i 25 e i 54 anni, l’arco temporale nel quale solitamente si diventa padri o lo si è già. In base all’ultima ricerca Ipsos, appena pubblicata, sarebbero 145.000 i bambini che hanno assistito in un anno ad almeno un episodio di violenza sulla propria madre e 53.000 quelli che hanno subito direttamente maltrattamenti (Fonti: Istat, Ipsos, Save the Children).