«Ricordo ancora il dolore sulla pancia quando ero incinta e lui mi buttò a terra, gridando che poteva farmi ciò che voleva. Appena nato, il bambino cominciava a piangere alle sue urla e man mano che cresceva si nascondeva dietro i mobili o correva a proteggermi, così a volte veniva colpito anche lui. Restava muto e si aggrappava a me». Marina, 30 anni, commessa, non è la sola a dover fare i conti con le conseguenze degli abusi domestici. Anche suo figlio è una vittima: di “violenza assistita”. Si definiscono così i minori costretti a vedere il padre che insulta, picchia e stupra la madre. L’Istat stima siano circa 800.000 nel nostro Paese. «Non essendo “bersagli diretti”, il loro dramma è spesso sottovalutato» spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea, onlus che sostiene le donne vittime di violenza e, con il progetto “Piccoli ospiti”, anche i loro figli. «Eppure gli effetti sono uguali a quelli dei bambini che subiscono violenza. Quando arrivano nei nostri centri, è difficile capire se siano stati picchiati o abbiano “soltanto” visto picchiare».
Non riesce a sviluppare una personalità autonoma
«Sono bambini agitati e iperattivi, con difficoltà di apprendimento, enuresi, disturbi del sonno, problemi di alimentazione e di socializzazione» precisa Lella Palladino, presidente di D.i.Re, Rete nazionale di centri antiviolenza, altra realtà al fianco di mamme e bambini. «Si tratta degli stessi segnali manifestati dai piccoli abusati sessualmente». Perché sono il frutto delle stesse emozioni. Così le racconta Zdenka, oggi 47enne, che le ha vissute ed è stata aiutata da Pangea: «Avevo 7 anni e molta paura, mi sentivo confusa e in pericolo. Pensavo solo a quando sarebbe finita e subivo tutto passivamente, in silenzio». A farne le spese è il processo di costruzione della personalità del bambino. «Da una parte i piccoli tendono ad allinearsi al padre, che è il modello vincente, quello che guadagna e compra i giocattoli mentre la madre resta a casa a piangere, svalutata e umiliata. Dall’altra tendono a proteggere la mamma. In questo caso c’è un’inversione di ruoli e vengono “adultizzati”» continua Palladino.
Il fenomeno è sottovalutato
Sebbene la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa ponga la tutela del minore al primo posto nei casi di violenza domestica, il fenomeno tende a essere sottovalutato. «Secondo la Convenzione, finché il padre violento non intraprende un programma di recupero dovrebbe essere allontanato sia dalla moglie sia dai figli, perché pericoloso per la loro sicurezza. Troppo spesso ciò non accade e così il percorso di rieducazione dei minori diventa lungo e difficile» spiega Simona Lanzoni. «Inoltre spesso i padri non vogliono che i bambini siano aiutati da professionisti a superare il trauma vissuto perché non si riconoscono violenti. In questo sono spesso indirettamente facilitati da assistenti sociali, psicologi, avvocati e giudici che temono manipolazioni delle dichiarazioni dei minori visto che i piccoli sono testimoni nei processi. Processi che durano anche 10 anni». Così i bambini continuano a crescere con la convinzione che le botte siano una forma di relazione. Un messaggio pericoloso che alimenta la catena transgenerazionale della violenza, creando nuovi uomini maltrattanti e nuove donne maltrattate.
Oscilla tra senso di colpa e aggressività
«A scuola mi isolavo, mi sentivo diversa dai compagni» ricorda Zdenka. «Avevo una sensazione costante di paura e di inadeguatezza. Pensavo di non essere brava, di non meritare nulla. Sono cresciuta pensando che il problema fossi io». Spesso è proprio in classe che il disagio diventa evidente. «Già alle elementari notiamo dei comportamenti-spia nei maschi. Per esempio dicono: “Sei una puttana” alla maestra che li corregge» racconta Rossella Gianfagna, dirigente scolastico di Campobasso che lavora a contatto con la rete antiviolenza e ha raccontato la sua esperienza al recente convegno sul tema organizzato dall’Ordine dei commercialisti e contabili di Milano. «Alle superiori diventano ragazzi violenti e prepotenti. Noi cerchiamo di aiutarli, dando loro ogni volta la possibilità di capire e rimediare».
Il recupero passa per la restituzione dell’infanzia e la ricostruzione del rapporto con la madre
«Quando mi sono rivolta al Centro Pangea ho capito che mio figlio aveva il diritto di sentirsi bambino» racconta Marina. «Non era lui a dover proteggere me, medicare le mie ferite, parare i colpi del padre. Al contrario, lui doveva giocare e ridere». Anche se non è mai facile. «Ospitiamo bambini che a 9 anni mimano abusi sessuali nei confronti delle bambine, distruggono giocattoli e mobili. Però al contempo dicono che non vogliono somigliare al papà» racconta Palladino. «Ma se le mamme sbottano, con frasi tipo “Sei proprio come tuo padre”, finiscono per riconoscersi in quel modello. E questa ambivalenza di sentimenti è una fonte di sofferenza». Nei centri i minori trovano prima di tutto uno spazio sicuro e sereno. «Forniamo gli strumenti perché madri e figli possano ricostruire un rapporto non minato dalla violenza, imparando a fare delle cose insieme, per esempio attraverso l’orticoltura, la cucina o l’ippoterapia» dice Simona Lanzoni. «Un nostro piccolo ospite prima ha imparato a prendersi cura del cavallo e poi ha aiutato la mamma impaurita a salirci sopra. È anche diventato bravo a scuola».
La legge per gli orfani di uxoricidio
Da febbraio è in vigore la legge che tutela almeno sul piano economico, i figli di donne uccise dai mariti. Fino a 26 anni non devono pagare spese legali; i beni di famiglia sono “congelati” in modo che a fine processo abbiano diritto a un risarcimento; non devono più fare causa al padre assassino per escluderlo dall’eredità della moglie.