È successo da poche settimane. Pietro Maso, uscito di prigione l’anno scorso dopo avere trascorso metà della sua vita in carcere per aver ucciso i genitori nel 1991, pronuncia una frase agghiacciante: «Devo finire il lavoro di 25 anni fa» dice, intercettato dalle forze dell’ordine, riferendosi alle sorelle. Quando sentiamo storie come questa o leggiamo episodi di cronaca nera viene spontaneo chiedersi: che cosa spinge alcuni individui a uccidere?
Ha provato a rispondere Adrian Raine, psichiatra e criminologo inglese, nel saggio L’anatomia della violenza (Mondadori Education). Un libro dalla tesi provocatoria: secondo lo studioso, esisterebbe un nesso tra anomalie del cervello e comportamenti violenti. Vediamo, allora, quali meccanismi scattano nella mente di un criminale.
ESISTE UNA PREDISPOSIZIONE ALLA VIOLENZA? Adrian Raine ha esposto le sue teorie a Milano nel convegno Il cervello e la violenza organizzato da Viviana Kasam, presidente di BrainCircleItalia, associazione no profit fondata per favorire lo scambio tra neuroscienziati italiani e stranieri. Sostiene che due aree del cervello, se non funzionano bene, possono causare un comportamento violento. Sono la corteccia prefrontale (che sta sopra gli occhi e dietro la fronte) e l’amigdala (che si trova alla base e al centro del cervello). «La prima controlla gli impulsi: ci aiuta a prendere le decisioni, a riflettere, a imparare dall’esperienza e dagli errori» spiega il criminologo. «La seconda è il centro delle emozioni, da cui dipendono il senso della vergogna, la paura, i freni che ci trattengono dal compiere determinate azioni».
Secondo Raine, gli assassini violenti e gli psicopatici avrebbero una corteccia prefrontale meno attiva e un’amigdala di dimensioni ridotte rispetto alla media. Se quest’ultima risulta inferiore del 18%, è difficile che un individuo provi emozioni ed empatia. Quindi, sarebbe più propenso a correre rischi, a essere irresponsabile, a non rispettare le regole, a sviluppare un comportamento violento. Per arrivare a queste conclusioni, Raine ha esaminato per 30 anni omicidi e serial killer detenuti nelle carceri inglesi e californiane utilizzando il “brain imagining”: ovvero quelle tecniche diagnostiche, dalla Tac alla risonanza magnetica, che servono per “vedere” il cervello. Tuttavia non è possibile stabilire se la persona violenta è nata con il danno cerebrale o se questo si è sviluppato nel corso della sua crescita.
«La violenza è una “malattia complessa” e non basta la biologia per spiegarla» chiarisce il genetista Edoardo Boncinelli. «Davanti a un caso di cronaca nera, spesso la gente si chiede se la colpa sia dei geni o dell’ambiente in cui il responsabile è nato e cresciuto. Ma questo è un modo vecchio e superato di porre la questione, perché la violenza non dipende da un unico fattore: accanto ai geni, giocano un ruolo fondamentale il contesto sociale e gli eventi casuali che accadono nel corso della vita».
SI PUÒ PREVEDERE IL COMPORTAMENTO CRIMINALE DURANTE L’INFANZIA? «Tutti nasciamo con un tasso di aggressività che poi perdiamo» spiega Marco Marchetti, psichiatra, criminologo e docente all’università del Molise. «Un’immagine rende bene l’idea di questo meccanismo: l’uscita da scuola dei bambini delle elementari, dei ragazzini delle medie e degli alunni delle superiori. I primi si rincorrono e si azzuffano. Gli altri, a mano a mano che crescono, adottano comportamenti sociali più idonei: li assimilano attraverso l’educazione, in famiglia e in classe». Ma c’è sempre chi, invece, si impone sugli altri usando la forza e l’aggressività. «In realtà non esiste il violento per definizione, ma qualcuno che, per cause di tipo ambientale e sociale, mantiene alto il picco di aggressività che ha alla nascita» sottolinea Marchetti.
Lo stesso Raine ritiene che ci sia una serie di fattori di rischio per un bambino: la malnutrizione, l’abbandono, gli abusi subiti durante l’infanzia. Alcune anomalie cerebrali possono verificarsi ancora prima, durante la gravidanza. Se la madre fa uso di alcol, fumo e droghe, ha 5 volte di più la probabilità di avere un figlio aggressivo. «Il cervello è un organo delicato che si sviluppa nel corso dei primi 20 anni o poco più: l’ultima parte a raggiungere una forma definitiva è quella prefrontale» precisa Marchetti. E Raine sostiene che «per la maggior parte dei criminali qualcosa è andato storto a livello cerebrale nei primi anni di vita».
GLI UOMINI SONO PIÙ AGGRESSIVI DELLE DONNE? «Sì, in tutte le culture» risponde lo psichiatra Marco Marchetti. «Se si esaminano le statistiche, si vede che il 95% degli omicidi nel mondo è stato commesso da un uomo. E i maschi sono anche la maggior parte delle vittime. Nel 50-60% dei casi si tratta di omicidi “one to one”, cioè con un autore e una vittima. Spesso i due si conoscono e il delitto avviene per questioni futili e banali». Ma qual è la causa della maggiore aggressività maschile? «Il testosterone c’entra poco» continua Marchetti. «Anche nel caso di un reato poco violento come la truffa, gli autori sono perlopiù uomini. La ragione di questo comportamento? Il maschio cerca di conquistare una posizione sociale da spendere nei confronti dei suoi simili e delle donne. Se non dispone dei mezzi necessari, dall’intelligenza alla ricchezza, lo fa utilizzando delle scorciatoie, magari fuori dalle regole. Un comportamento che, estremizzato, può portare all’omicidio».
Nel tracciare l’identikit del violento va considerata l’età: «Si tratta nella maggior parte dei casi di una persona giovane» dice Marchetti. «A sostenerlo per primo è stato nell’800 Adolphe Quetelet, il matematico a cui dobbiamo l’Indice di massa corporeo, quello che ci dice se siamo grassi o magri». C’è una sola eccezione alla minore violenza femminile: «Il bullismo» dice Marchetti. «Le percentuali di soprusi tra ragazzi sono simili fra maschi e femmine».
ESISTONO PAESI MENO VIOLENTI DI ALTRI? In base ai dati delle Nazioni Unite, in testa alla classifica degli Stati più tranquilli c’è il Giappone, con 0,3 omicidi ogni 100.000 abitanti. Mentre il più violento risulta l’Honduras, con 90,4 omicidi ogni 100.000 abitati. E l’Italia? Da noi si contano 0,75 omicidi per 100.000 abitanti, contro l’1,2-1,3 della media europea. Eppure la percezione comune è ben diversa: siamo convinti di vivere in un Paese ad alto tasso di criminalità. Forse per il risalto che viene dato dai media alla cronaca nera, forse perché alla base dell’attrazione di tanti per i delitti più efferati c’è il tentativo di capire le ragioni del male, spesso incarnato da chi apparentemente è “come noi”.
«In realtà, dal Medioevo a oggi, gli omicidi sono diminuiti in tutto il mondo: il calo è maggiore nei Paesi ricchi, ma la curva discendente riguarda anche quelli poveri e le grandi organizzazioni criminali» dice Marco Marchetti. E anche i Pietro Maso, alla fine, sono un’eccezione: su 100 omicidi meno di 2 hanno come vittima un parente, perché chi ha il patrimonio genetico in comune tende ad aiutarsi. Il dato più eclatante? Il numero dei suicidi nel mondo: sono il doppio degli omicidi.