Purtroppo casi come quello di Brescia fanno parte della quotidianità di chi lavora con le donne vittime di violenza. La storia forse non ce la ricordiamo. Noi però abbiamo scelto di raccontarvela per il suo valore simbolico, una tra tante altre, simili nella dinamica e nell’esito. Un uomo di 59 anni della provincia di Brescia aveva aggredito la moglie e la figlia a martellate. Il ritrovamento di taniche di benzina aveva fatto ipotizzare che volesse ucciderle, appiccando il fuoco, da qui l’accusa di tentato omicidio. In Tribunale ha patteggiato quattro anni e sei mesi, ma ha ottenuto di poter tornare nella villetta in cui abitava proprio con la famiglia, con la limitazione di occupare il piano inferiore. Un incubo per la moglie e la figlia: “Episodi del genere fanno parte della quotidianità, secondo la nostra esperienza. Proprio di recente ci è capitato il caso di un uomo per cui sono stati disposti gli arresti domiciliari per violenze sulla compagna, ma che risulta senza domicilio, dunque a piede libero” spiga Lella Paladino, Presidente di D.i.Re, che riunisce 80 associazioni con 105 sportelli di ascolto.
Perché accadono vicende simili?
Com’è possibile che si verifichino casi come quello di Brescia? A spiegarlo, possono concorrere diversi motivi: la legge, ad esempio, prevede che per condanne fino a 4 anni si possa chiedere l’affido in prova ai servizi sociali. L’uomo in questione, dopo i primi tre mesi, è probabile abbia presentato istanza per modificare la misura cautelare dal carcere ai domiciliari, presso il figlio, che deve avere prestato il suo consenso. Così come la parte offesa, cioè la moglie, deve esserne stata a conoscenza. È anche plausibile che i giudici abbiano considerato le ferite lievi riportate dalla donna, a prescindere dalla presunta volontà dell’uomo” spiega l’avvocato penalista Roberta Cantoni, che aggiunge: “Del resto la tendenza della giurisprudenza è di evitare il carcere, a meno di non essere in presenza di un caso particolarmente grave con un soggetto, ad esempio, pluripregiudicato o con problemi di droga”.
“Nella realtà di tutti i giorni accadono cose che non dovrebbero accadere, sono incoerenze nel sistema di tutela alle vittime, dovute a diversi motivi” dice però Palladino.
Manca uno sguardo di genere
“Le criticità sono diverse, la principale è di ordine culturale perché si fa fatica a riconoscere quanto sia diffusa la violenza sulle donne. Poi c’è un problema di carenza di formazione in chi lavora nel front office, cioè chi accoglie le denunce delle donne: carabinieri, polizia, ma anche addetti del sistema sociosanitario che spesso non sanno distinguere le situazioni realmente pericolose. Anche la giustizia ha problemi, come sottolineato dal Consiglio Superiore della Magistratura, secondo cui a mancare non è la preparazione tecnica, la conoscenza delle leggi, quando piuttosto uno sguardo di genere. Ci sono ancora troppe complicità dal punto di vista culturale che fanno sì che spesso la violenza sia legittimata. Il risultato è una scarsa protezione che espone le donne” spiega Palladino. “Purtroppo ci sono casi che sono banalizzati e altri che vengono esasperati: da un lato c’è la tendenza a far passare come violenza anche solo una mano che si appoggia su un ginocchio o su una spalla, dall’altra magari si sottovalutano situazioni gravi, dove si parla di percosse alle donne” spiega Cantoni.
Poche case rifugio e mal distribuite
Ad aggravare la situazione c’è anche una scarsità di risorse economiche: “C’è un numero esiguo di posti letto nelle case rifugio a fronte delle esigenze. Quando ci sono, poi, sono mal distribuite e poco finanziate” spiega la presidente di D.i.Re. “Dovrebbero essere finanziate sia dal governo centrale, in base alla legge 119 sul femminicidio, che recepisce la Convenzione internazionale di Istambul, sia a livello locale, quindi da Regioni o Comuni. Alcuni Enti sono virtuosi e lo fanno, ma esistono interi territori dove le strutture protette sono poche e non specializzate, come accade in regioni come Calabria, Campania e Puglia” spiega Palladino.
Le case rifugio per ricominciare
Sono 108 i centri antiviolenza in Italia gestiti dalla rete D.i.Re, che conta anche su 92 case rifugio e 42 di semi-autonomia. “L’accesso avviene su richiesta della stessa donna vittima di violenza quando ritiene che ci sia un pericolo imminente. Avere dei figli non è una discriminante né dà priorità: il requisito principale è la paura della donna di restare in casa. Poi vengono fatte alcune valutazioni, in base al metodo Sara, che è una scala di valutazione del rischio. Ad esempio, la frequenza degli episodi violenti oppure il fatto che il partner violento possieda armi, o ancora se sia una persona violenta solo in casa o anche fuori” spiega Anna Campanile, operatrice del centro Voce Donna di Pordenone, pronta a raccontare il “Modello Friuli” alla IV Conferenza Mondiale dei Centri Antiviolenza, a Taiwan dal 2 all’8 novembre.
Il “Modello Friuli”
In Friuli Venezia Giulia esiste un modello virtuoso, di cui Campanile parlerà alla Conferenza mondiale, a cui parteciperanno 1.500 donne da 120 paesi: “Grazie al progetto Matelda sono già decine le donne che hanno seguito un percorso virtuoso, anche grazie alla collaborazione con la Regione, che ha rimborsato fino all’80% del costo della baby sitter alle donne vittime di violenza in casa rifugio. I requisiti erano di avere figli minori di 14 anni ed essere una donna con un lavoro, o occupata nella ricerca di un lavoro o iscritta a un corso di riqualificazione professionale. Avviato come progetto sperimentale, ora si pensa di renderlo stabile” spiega Campanile. Per alcune donne questa possibilità ha rappresentato la vera svolta perché ha permesso di ritrovare un’autonomia economica, senza la quale le vittime di violenza spesso non osano denunciare i partner violenti o lasciarli.
Come si esce dal tunnel della violenza
“Mediamente le donne rimangono nelle case rifugio per sei mesi, perché sono vittime anche economiche. Durante questo periodo ritrovano fiducia in se stesse e cercano un lavoro che possa ridare loro l’autonomia economica necessaria anche per pagarsi un piccolo appartamento e ricostruirsi una vita vera. In alcuni casi le nostre esperte fanno anche un bilancio delle competenze lavorative, ma spesso le donne sono in grado di rivolgersi da sole alle agenzie interinali o ai centri per l’impiego. L’obiettivo, insomma, è uscire dalla casa rifugio con le proprie gambe, perché spesso le donne hanno già tutte le risorse per farcela” spiega Anna Campanile.
Tante violenze, poche denunce
Una donna su tre (33%) ha subìto violenza fisica e/o violenza sessuale dai 15 anni in su. A dirlo è una ricerca dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (FRA) condotta su 42mila donne. In Italia ha confermato numeri analoghi. Eppure solo il 10% delle vittime nel nostro Paese ha denunciato alla polizia l’episodio di violenza (più grave) subito dal partner, mentre in Europa si arriva al 14%. Spesso le donne sono frenate dalla vergogna o dalla paura per la propria incolumità o quella dei familiari.
L’identikit delle vittime
“In realtà non esiste, perché le donne vittime di violenza possono avere qualsiasi età: si va dalle ragazze di 20 anni che subiscono da parte dei fidanzati alle donne di 70 anni che, dopo una vita di abusi, desiderano solo passare gli ultimi anni in modo tranquillo, scegliendo di separarsi o divorziare. Lo stesso vale per la nazionalità, perché ci sono sia italiane che straniere, e per il livello culturale, che va da un alta scolarizzazione a una condizione più modesta. Insomma, la violenza è un fenomeno trasversale” conclude Anna Campanile.