Laura Petroliti aveva appena 20 anni e un passato difficile alle spalle: è stata uccisa a pugnalate e gettata in un pozzo, in provincia di Siracusa, dal compagno, che ha confessato di aver agito per gelosia. È una delle motivazioni più frequenti, che spingono mariti e findanzati a compiere abusi, violenze o persino delitti nei confronti delle donne. Spesso si inizia con le denigrazioni, le offese, un controllo sempre maggiore da parte del partner, che tende a isolare la compagna da amiche, madri e parenti. Poi arriva la violenza fisica, fino a casi drammatici come quelli di Canicattini Bagni o di Latina, dove Antonietta Gargiulo è sopravvissuta solo per caso alla furia del marito Luigi Capasso, che però non ha risparmiato le figlie, prima di togliersi la vita.
Ma com’è possibile evitare questi drammi? «Bisogna chiedere aiuto e rivolgersi alle persone giuste. Non basta denunciare, perché spesso la parole delle donne non viene presa in debita considerazione. Occorre una vera rete di sostegno e protezione per le vittime e i loro figli. Ma anche far conoscere quali sono i segnali che possono mettere in guardia le donne prima che la situazione peggiori» spiega a Donna Moderna Raffaella Palladino, Presidente di D.i.RE, Donne in Rete contro la violenza” (www.direcontrolaviolenza.it), la prima associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali, gestiti da donne che si battono contro la violenza di genere e non solo.
La fine di “Lauretta”
A Canicattini Bagni, in provincia di Siracusa, “Lauretta” era conosciuta da tutti e tutti sapevano del difficile rapporto con Paolo Cugno, il compagno 26enne da cui aveva avuto il secondo figlio, una bambina di appena 8 mesi. La loro relazione durava da un paio di anni, ma in molti sostengono che litigassero spesso: Laura era seguita dai servizi sociali fin da quando, appena 16enne, era diventata madre di un bambino avuto da un altro uomo. Solo pochi giorni prima della sua morte aveva avuto un ennesimo colloquio ed era parsa speranzosa, perché Paolo aveva trovato un lavoro e lei sognava di poter affittare una casa insieme a lui, lasciando quella dei genitori del ragazzo. Ma la gelosia ha infranto i sogni di Lauretta che già in passato, come ha raccontato dalla zia, era stata picchiata dal compagno. Non aveva, però, avuto il coraggio e la forza di sporgere denuncia.
È sempre nella sfera degli affetti che indagano anche gli inquirenti di Boccia al Muro di Terzigno, in provincia di Napoli, dove una donna è stata uccisa a colpi di pistola da un uomo, che le si era avvicinato dicendole che dovevano parlare. Durante la discussione, però, è stato sentito uno sparo e l’assassino è fuggito subito dopo in scooter. La 31enne aveva appena accompagnato la figlia a scuola. Le forze dell’ordine cercano il marito.
Il caso di Latina
Solo poche settimane prima a a Cisterna Latina Luigi Capasso, carabiniere di 44 anni, ha colpito la compagna di 39 sparandole, per poi uccidere le figlie di 7 e 13 anni e togliersi la vita. Un dramma nato tra le mura domestiche, prima sotto forma di aggressioni anche in casa davanti alle figlie e fuori dal posto di lavoro della donna. Poi, con la separazione dopo che lei si era presentata al Commissariato di Polizia, il rancore di Capasso era aumentato, nonostante fosse stato “convocato e redarguito” dagli agenti. Infine, l’epilogo tragico. Ma cosa non ha funzionato? La richiesta di aiuto della donna, che aveva evitato la denuncia perché il marito era carabiniere e temeva di aggravare la situazione, era rimasta inascoltata. «Troppo spesso si parla di separazioni conflittuali, quando invece ci sono situazioni di violenza conclamata. C’è anche una certa difficoltà di applicazione degli ordini di allontanamento» dice Pallavicino.
Troppo poche le denunce
Secondo il più recente rapporto Istat, le donne italiane che hanno denunciato una violenza subìta sono appena l’11,4% contro il 17,1% di quelle straniere. Le vittime spesso temono ripercussioni per sé e i figli. Il 37,6% delle vittime di violenza da parte del partner ha riportato ferite, lividi, contusioni o altre lesioni, tanto che in 1 caso su 5 è stato necessario il ricovero in ospedale o rivolgersi al pronto soccorso. Come spiegato dal Presidente Istat, Giorgio Alleva, in occasione dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulle violenze di genere, la situazione è ancora più drammatica se si pensa che nel 20% dei casi di ricovero ospedaliero, sono stati riportati danni permanenti.
“Purtroppo noi stesse a volte sconsigliamo di denunciare, se ci accorgiamo che le donne non sono pronte ad affrontare il percorso previsto nei tribunali, con una ri-vittimizzazione delle donne e la mancanza di un sistema di protezione reale. Le case-rifugio sono insufficienti: nella nostra rete, che raccoglie 80 organizzazioni sul territorio in 18 regioni, non sono più di 70/80″ aggiunge Pallavicino.
Il sistema di protezione: carenze, ma anche progressi
“In Italia, poi, scontiamo una certa cultura giuridica per cui le leggi, che pure ci sono, vengono applicate nei tribunali con il filtro di una dimensione culturale ancora patriarcale“. A dirlo è stato un magistrato in occasione di un incontro del Consiglio Superiore della Magistratura con l’Osservatorio nazionale delle organizzazioni impegnate in questo settore” spiega l’esperta, che aggiunge: “Non a caso la Corte di Strasburgo ha richiamato per ben due volte l’Italia perché il nostro sistema protettivo non è adeguato“.
Il problema è anche economico e strutturale: i fondi stanziati per i centri antiviolenza si perdono nella burocrazia. Una volta erogati, arrivano con il contagocce o se ne perdono le tracce, come ha denunciato la Corte dei Conti (ce ne siamo occupate a suo tempo anche noi di Donna Moderna).
“Va però anche detto che ci sono stati dei progressi e soprattutto che, se alcune donne sono ancora vittime, molte sono riuscite a “liberarsi” grazie ai centri anti-violenza: la parola d’ordine è uscire dall’isolamento” consiglia la Presidente di D.i.Re.
Cosa fare e a chi rivolgersi
“Il primo consiglio è quello di chiedere aiuto e farlo rivolgendosi al 1522, il numero verde istituito dal Dipartimento per le Pari Opportunità, che indirizza al centro anti-violenza più vicino. È importante rivolgersi a realtà serie, non improvvisate, che siano davvero in grado di sostenere le donne in un percorso delicato e che non sia solo di assistenza immediata: c’è bisogno di una rete di tutela che vada oltre lo psicologo o il medico in ospedale” – spiega Pallavicino.
La realtà più sicura è la Rete D.i.Re, a cui aderiscono 80 centri anti-violenza in tutta Italia. Li si può contattare telefonicamente o recarvisi di persona: sono elencati e collocati su un’apposita mappa interattiva dell’Italia (comecitrovi.women.it), con indirizzi, caratteristiche delle associazioni e attività svolte. Si tratta di centri che sono riconosciuti dal Ministero delle Pari Opportunità e che lavorano in collaborazione con esso.
Esiste anche una App completamente gratuita che, grazie a un sistema di geolocalizzazione, fornisce un aiuto immediato tramite informazioni e riferimenti per entrare in contatto con i centri anti-violenza più vicini a ciascuna.
All’accoglienza telefonica e ai colloqui personali, si uniscono ospitalità in case rifugio, consulenza psicologica e legale, aiuto e sostegno alle donne nel percorso di uscita dalla violenza, ad esempio attraverso l’inserimento lavorativo.
“Le nuove linee guida nazionali di fine novembre rappresentano un passo avanti rispetto all’istituzione del Codice Rosa presso i Pronto Soccorso: prima, partiva in automatico la denuncia, appena la donna si recava in ospedale in seguito a una violenza. Oggi invece le donne sono libere di sporgere denuncia o meno, anche se per i reatipiù gravi si procede d’ufficio” aggiunge.
Il Codice Rosa, istituito nel 2015, prevede un percorso di assistenza presso i Pronto Soccorso qualora si presentino donne che hanno subito violenza sessuale o fisica, con l’aiuto di una task force costituita da personale medico (dottori, psicologi, infermieri e assistenti sociali), con il coinvolgimento anche delle forze dell’ordine o di magistrati per le denunce. Si tratta di un protocollo che ha trovato un’applicazione non omogenea sul territorio e alcune perplessità da parte delle associazioni, che paventavano il rischio di ulteriori ritorsioni da parte degli autori delle violenze nei confronti delle vittime.
Quali campanelli d’allarme
Come accorgersi di un comportamento che potrebbe degenerare? “Le donne devono aprire gli occhi se il marito, compagno o fidanzato diventa “controllante” e tende a isolare la donna dalle sue relazioni più importanti (amiche, sorelle, madri). Di solito, infatti, la violenza segue una strada ben precisa. È difficile che un uomo uccida al’improvviso una donna o diventi violento senza alcun segnale premonitore: dalla denigrazione, svalutazione e offese si passa all’isolamento e a un controllo sempre maggiore. Se la donna alza il proprio livello di tolleranza, l’uomo aumenta le violenze psicologiche e passa a quelle fisiche” avverte Pallavicino.
Delle violenze alle donne oggi si parla di più e c’è una maggiore sensibilità: “Ci sono segnali positivi, ma c’è ancora tanta strada da fare – dice la Presidente di D.i.Re. Purtroppo le risorse sono pochissime e distribuite male, occorrono politiche specifiche per fronteggiare una deriva culturale, e servono alleanze e tempo: la nostra cultura in particolare considera ancora quello maschile come “il” genere“.
Quante vittime di violenze
Sono 6.788.000 le donne che hanno subìto violenza almeno una volta nella vita in Italia: nel 21% dei casi si tratta di abusi sessuali, nel 20% di violenza fisica, mentre l’11% delle vittime è costituito da ragazze con meno di 16 anni (dati Istat novembre 2017). In 6 casi su 10 le violenze provengono dal partner (59%), mentre in un terzo il responsabile è comunque un familiare. Quando poi si arriva al femminicidio, i dati del 2016 indicano che su 149 delitti di questo tipo, 76 sono stati commessi da partner o ex partner, mentre 33 donne sono state uccise da un parente.
Molestie anche sul lavoro
Sono 3.466.000 invece coloro che hanno a che fare con casi di stalking. Oltre 1 milione e 400 mila donne hanno subito molestie o ricatti sul lavoro, pari a circa il 9% delle lavoratrici italiane. L’11% dei ricatti sessuali finisce con il licenziamento della donna vittima. Le conseguenze sono spesso drammatiche: il 16% di coloro che vengono molestate, picchiate o vessate psicologicamente ricorre all’uso di farmaci, il 15% ha bisogno di cure psicologiche, il 12% deve sostenere spese legali per denunce o procedimenti nei confronti del proprio “aguzzino”. Il 5%, infine, subisce anche danni legati alle sue proprietà.
Insieme alla violenza domestica, emergono nuove forme di abuso: gender gap, odio online, mansplaining. Come sottolineano qui 5 scrittrici, giornaliste e attiviste.