Prosegue la nostra inchiesta dopo la morte del neonato al Pertini di Roma
Dopo il caso del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma, prosegue la nostra inchiesta sulla violenza ostetrica.
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Parlano le ostetriche
«Vorrei avere più mani, ma non è possibile. A volte io rincorro un’emergenza mentre una mamma che ha bisogno per l’allattamento mi aspetta. Vedo il suo sconforto perché il neonato piange e non si attacca al seno. Allora faccio appello alla mia razionalità, cerco di lavorare per priorità, chiedo aiuto alle colleghe». Una vita in affanno quella di Valeria Massaro, ostetrica in Emilia Romagna. Mi racconta le sue giornate faticose con la grinta di chi fa questo lavoro con passione. «È il mio sogno dal liceo. Ho sempre desiderato supportare le donne in un percorso così importante».
I limiti degli ospedali raccontati dalle ostetriche
Oggi Valeria ha 31 anni e, dopo gli inizi nei Paesi in via di sviluppo, dal Mozambico alla Bolivia fino ad Haiti, lavora nel reparto maternità più importante della Regione ed è dirigente sindacale della Fials (Federazione italiana autonomie locali e sanità) di Bologna. «Sono qui per dare voce alla professione». Un compito non facile in queste settimane, con i riflettori puntati addosso dopo la tragedia della mamma che si è addormentata sfinita mentre allattava in un letto dell’ospedale Pertini di Roma. E del suo bimbo che la mattina dopo non respirava più. «I miei sentimenti? È dura, la solitudine delle donne è emersa con prepotenza e mi spinge a lavorare ancora di più. Ma poi mi scontro con i limiti strutturali e organizzativi. E io opero in una delle Regioni più all’avanguardia. Nel resto d’Italia va anche peggio…».
Chi pensa ai bisogni delle donne?
Basti pensare agli ospedali vecchi, dove ci si divide in otto uno stanzone e un bagno. E poi ci sono i limiti organizzativi del percorso maternità: fino al travaglio l’attenzione è tutta sulla donna e sono in tanti a occuparsene, dai ginecologi al personale infermieristico (anche se, a torto, quando si parla di violenza ostetrica il riferimento è sempre e solo alle ostetriche). Ma quando il bimbo viene alla luce, ci si concentra solo su di lui. «Quasi nessuno pensa davvero ai bisogni della donna: è stanca? Ha male ai punti? Ha paura della nuova quotidianità? Qui noi ostetriche siamo fondamentali e abbiamo le competenze tecniche giuste. A cui aggiungere l’empatia: a me piace soffermarmi sulle parole e sulla dolcezza, ma non tutti lo fanno perché c’è poca formazione. Il modo con cui rapportarsi al paziente va insegnato in università».
Un’ostetrica per ogni donna
E poi c’è il capitolo “carenza di organico” ed è qui che il delicatissimo ingranaggio si spezza. Le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sottolineano che ci dovrebbe essere un’ostetrica per ogni donna. «In sala parto è così, ma in reparto no. Nella mia Regione c’è almeno una professionista per 10 partorienti, altrove anche una ogni 20». L’assistenza diventa una corsa a ostacoli. E i dati non ammettono repliche. Secondo Eurostat, in Italia si registrano 29 ostetriche ogni 100.000 abitanti, quando la media europea sfiora le 40. La presidente della Federazione nazionale degli ordini della professione, Silvia Vaccari, è stata ancora più netta. «Oggi siamo 20.885, ma di queste il 20% è in pensione o all’estero. Se dovessimo fare un calcolo sulla base del fabbisogno, diciamo che all’appello ne mancano altrettante».
Come si diventa ostetrica
Eppure il corso di laurea è a numero chiuso e capita che chi va in pensione o in maternità non venga sostituito. «Lavoriamo 36 ore alla settimana, con turni dalle 6 alle 11 ore. Questi ultimi sono i notturni, i più pesanti perché fisiologicamente i parti avvengono soprattutto di notte. La paga? Chi fa solo il diurno guadagna poco più di 1.500 euro, le altre circa 1.700. Gli anni in pandemia sono stati una vera sfida. Gli infermieri hanno ottenuto un indennizzo specifico per la loro professione. Noi, purtroppo, no: abbiamo sempre seguito ogni donna positiva al Covid, ma le istituzioni ci hanno dimenticato». L’amarezza traspare nella voce di Valeria Massaro, ma poi il presente la chiama.
I papà in sala parto
In questi giorni alcuni ospedali, come il Sant’Anna di Torino e il San Martino di Genova, hanno annunciato la riapertura dei reparti ai papà. «Le mamme hanno il diritto sacrosanto di avere il supporto di una persona di fiducia, che deve essere consapevole e quindi partecipare anche al corso preparto. Il caregiver è una risorsa e serve un cambio culturale: non esiste solo il binomio mamma-bimbo, di cui ci occupiamo dal punto di vista sanitario. In quel momento nasce una famiglia e quando vedo la soddisfazione negli occhi di mamma e papà mi commuovo. Sono istanti di bellezza e forza. Ma anche di grande delicatezza, con le difficoltà dell’allattamento, il baby blues e lo spettro della depressione. Ecco perché le ostetriche servono anche dopo, negli ambulatori e nei consultori. Senza un’alleanza tra professioniste e famiglia non si va da nessuna parte».
La petizione di MamaChat: un caregiver in ospedale
Quello che chiedono le donne è semplice. Non vogliono più essere lasciate sole a partorire». È perentoria Margherita Fioruzzi, founder dell’associazione MamaChat e ideatrice della petizione online che vuole la presenza stabile di un caregiver durante e dopo il parto e che ha raccolto 170.000 firme in pochi giorni.
Una battaglia che le lettrici di Donna Moderna conoscono bene. È la stessa affrontata sulle pagine di questo giornale un anno fa, quando chiedevamo di far entrare i papà in sala parto. L’allora sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ci aveva assicurato di essere al lavoro sulla questione. Oggi, dopo la tragica vicenda del neonato morto al Pertini di Roma e della sua mamma lasciata troppo sola nei giorni dopo il parto, siamo tornati a chiedere. Dal ministero della Salute non abbiamo avuto risposta, ma qualcosa negli ospedali sembra muoversi. In molte strutture stanno riaprendo i reparti maternità, sebbene a macchia di leopardo. Lo racconta anche l’ostetrica intervistata in questo articolo. Ora però serve che lo facciano tutti. Che nessuno resti indietro. Un’esigenza di uniformità che sembra essere chiara anche alla Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere), come ci testimonia il presidente Giovanni Migliore, direttore generale del Policlinico di Bari: «Stiamo sollecitando gli ospedali a definire protocolli unici per la gestione dell’assistenza dopo il parto. E abbiamo dato la nostra disponibilità al ministero della Salute per partecipare al tavolo di lavoro che sarà convocato, d’intesa con il ministero della Famiglia, per dare il nostro contributo nella scrittura di un protocollo d’intesa». L’inizio di un percorso che seguiremo da vicino e che vi racconteremo. (Nina Gigante)