La violenza negli ospedali, luoghi che dovrebbero essere sicuri, sono sempre più frequenti. A pagarne il prezzo a volte sono i membri del personale sanitario, altre i pazienti. Riguarda tanto chi cura quanto chi dovrebbe essere curato, al punto da farci domandare: gli ospedali sono ancora luoghi di accoglienza e assistenza? Secondo gli ultimi dati Inail, riferiti al 2022, i casi di violenza contro il personale medico-sanitario e infermieristico sono stati più di 6.000 solo in quell’anno. Il 70% ha riguardato le donne. In camice bianco, in divisa da infermiera, non importa il ruolo. Il vero filo comune tra le vittime è sempre e soltanto questo: essere donna.

Una notte in pronto soccorso

La dottoressa Isabella Petrone, 57 anni e da 30 anni in servizio in ambito psichiatrico, racconta un episodio accaduto all’inizio del 2024. Mentre era in servizio in un pronto soccorso calabrese, arriva un paziente in stato di alterazione per l’assunzione di stupefacenti. L’uomo è scortato da due carabinieri che, dopo averlo affidato ai medici, vanno via. La dottoressa prova a sedarlo. Non riesce. Il paziente si alza in piedi e la strattona. È notte. Il pronto soccorso è quasi vuoto. L’uomo afferra una delle bombole antincendio agganciate al muro.

La dottoressa capisce che la situazione è fuori controllo, si rifugia in una delle stanze del presidio sanitario, con lei c’è solo un infermiere. Chiudono la porta, si rannicchiano in un angolo, l’uno vicino all’altra. La porta è a vetri antisfondamento. Pian piano, però, si sgretolano sotto i colpi incessanti della bombola usata come clava. Alla fine, il paziente sfonda la porta. Entra nella stanza, si avvicina a loro, si slaccia la cintura e la sfila dal pantalone. La brandisce e sceglie la dottoressa come bersaglio. Prova a strozzarla. L’infermiere però lo blocca e l’uomo si allontana e si dirige verso altre potenziali vittime.

Sentendosi responsabile per non essere riuscita a sedarlo, la psichiatra gli si avvicina per provare a calmarlo. Ancora una volta, non riesce. E giù calci, pugni, schiaffi, spintoni. Tanti uomini intorno. Ma stavolta nessuno interviene.

Violenza sistemica, un fatto culturale

È un caso tra i tanti quello che ha coinvolto la dottoressa Isabella Petrone. «Ne ho viste e subite molte altre, di violenze. Ma mai come questa» racconta. «A fare male non sono tanto le ferite fisiche, quanto quelle mentali». Sono trascorsi pochi mesi da quell’episodio, tre dei quali passati in psicoterapia. Ma niente è bastato alla dottoressa per ritrovare la sicurezza che aveva prima. «Quando vado in Pronto soccorso sono guardinga, sospettosa. Ho paura. I pazienti sono arrabbiati per le carenze della sanità. Ma, certo, se parliamo di aggressività contro le donne c’è anche un tema culturale di fondo».

Qual è questo tema culturale non affrontato? «Non siamo pienamente rispettate come professioniste: veniamo considerate prima donne e solo dopo medici. E la mancanza di rispetto è alla base di ogni brutalità. Due giorni fa, per esempio, un paziente ha iniziato a insultarmi. Non era fisicamente violento, ma è stato orribile constatare che, quando è entrato l’infermiere con cui collaboro, a lui si rivolgeva in tutt’altro modo. Certo, era sempre sgarbato, ma lontanissimo dall’urlargli contro offese gravi come quelle che gridava a me: troia, puttana e così via. Ecco, questo è solo parte di quanto ci sentiamo dire mentre lavoriamo. Violenze fisiche o verbali, abusi, sessismo: per come la vedo io, tutto si tiene».

Le testimonianze delle donne in corsia

Tra le dottoresse e le infermiere c’è chi ha iniziato a denunciare e condividere sui social esperienze di aggressioni, molestie e discriminazioni subite non solo dai pazienti, ma anche dai colleghi. «Le ostetriche quest’anno sono tutte cessi, almeno una trombabile potevate prenderla» ha detto un ginecologo, collega di Francesca. «Le uniche donne che assumerei sono quelle sterili» sosteneva invece l’ex primario di Marzia. «Ho dovuto chiudermi a chiave nella stanza degli infermieri la prima notte in servizio, perché i colleghi uomini avevano l’abitudine di molestare le nuove arrivate» è l’atroce esperienza di Federica. «Ricordo le mani del dottore che scivolavano sul mio fondoschiena, mentre eravamo in corridoio. Ero solo un’infermiera, che potevo fare?» domanda Sara. «Chissà da chi si è fatta scopare quella per essere diventata primario» chiedeva in sala operatoria un chirurgo, collega di Maria.

Queste sono solo alcune delle testimonianze che circolano sul web, in parte raccolte dalla pagina Instagram “Mamme a Nudo” gestita dall’anestesista Sasha Damiani. «Ho deciso di aprirla» spiega la dottoressa «quando davanti a una collega che mi raccontava degli abusi subiti da parte dei suoi superiori, mi sono scoperta a stupirmene ben poco. È sempre successo così, ho pensato: cosa pretende lei? E allora ho capito che ero anche io vittima di questo modo di ragionare. È la trappola dalla quale dobbiamo tirarci fuori: pensare che tutto sia normale. Non siamo noi le isteriche, non siamo noi quelle poco lucide perché abbiamo il ciclo, non abbiamo gli ormoni in subbuglio, come spesso ci sentiamo rispondere quando osiamo muovere una critica ai nostri colleghi. Se pensiamo che una cosa sia sbagliata e diciamo “no, basta!”, abbiamo semplicemente ragione».

“Anche io”, il #Metoo delle dottoresse

Il #Metoo delle donne in corsia: così è stata definita questa valanga di testimonianze che ha invaso la rete da circa un anno e che non conosce battute d’arresto. I nomi, però, sono tutti di fantasia: la paura a parlare, infatti, qualunque ruolo si ricopra, è sempre tanta.

Secondo i dati raccolti dall’associazione Women in Surgery, nata per promuovere iniziative volte al raggiungimento della parità di genere tra i chirurghi, il 60% delle donne in corsia ha subito molestie da pazienti o colleghi, ma solo il 10% ha deciso di denunciare. Le altre si fermano, per paura o per vergogna. E ad aggravare questo clima di omertà c’è la consapevolezza che solo una su 4 di quel 10% di denunce ha un seguito, con un’azione legale o almeno un richiamo aziendale. Le restanti cadono nel nulla, quando tutto va bene. Se invece va male, la donna che denuncia non solo non viene creduta, ma è anche isolata dalla comunità.

«Perché come fai a dimostrare la battuta quotidiana sessista del tuo direttore o la palpata di un collega?» spiega Daniela Rega, presidente di Women in Surgery. «Queste micro-aggressioni sono le più pericolose, proprio perché difficilmente riconoscibili e denunciabili. Parliamo però di veri abusi che incidono sulla vita privata come una goccia cinese, con effetti negativi anche sulla carriera. Noi donne siamo ormai la maggioranza tra i medici under 70: un trend crescente che è stato definito “l’onda rosa della sanità”. Eppure, solo il 17% di noi ricopre posizioni apicali. Sarà un caso? Mi sembra ingenuo crederlo, per non dire pretestuoso».

Se le vittime sono i pazienti

È di poche settimane fa l’ultimo episodio di violenza nei confronti dei pazienti all’interno di una struttura sanitaria. Il 28 maggio un ragazzo transgender poco più che 20enne, ricoverato presso l’ospedale di Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano, si è suicidato dopo aver subito un abuso in un ambulatorio del Pronto soccorso.

La giovane vittima, ancora registrata all’anagrafe con il nome femminile, era andata in ospedale in seguito a un’altra violenza: quella subita tutti i giorni, a casa. Una storia complessa, ma purtroppo non isolata. Non esistono dati sulle violenze nei confronti dei pazienti all’interno degli ospedali italiani. «Ma certo questo non è il primo caso» commenta un infermiere della struttura milanese, che chiede di rimanere anonimo.

«Le violenze contro il personale sanitario e quelle contro i pazienti sono due facce della stessa medaglia. Per arginarle, il primo passo è aumentare i controlli e far sì che le forze dell’ordine tutelino sia chi viene qui a curarsi sia chi in ospedale entra ogni giorno per svolgere il suo lavoro».