Ancora una donna che subisce violenza, denuncia e viene vittimizzata un’altra volta. L’ultimo episodio è successo a Tempio Pausania (la stessa procura dove si svolge il processo contro il figlio di Beppe Grillo), con un pubblico ministero che ha disposto l’archiviazione di una denuncia per stupro perché la giovane donna che ne è stata vittima non avrebbe urlato né chiesto aiuto. Al Corriere della Sera la protagonista di questa vicenda racconta nell’anonimato che la sua vita e quella della sua amica sono state stravolte da quando nel luglio 2019 hanno subito violenza da un gruppo di quattro ragazzi su una spiaggia della Sardegna. «Rielaborare l’accaduto è stato quasi impossibile- racconta nell’intervista – ho avuto bisogno dell’aiuto di una psichiatra, di una psicoterapeuta e di una terapia farmacologica, medicine che tuttora continuo a prendere per evitare di compiere gesti estremi come è capitato in passato. La violenza è una cosa che un po’ elabori e un po’ non elaborerai mai, non puoi dimenticarla, non puoi smettere di sentirla o di riviverla tutti i giorni».
La donna nega la violenza anche a se stessa
Eppure, per il pubblico ministero questa violenza non c’è stata. L’avvocatessa che tutela la giovane donna si opporrà al decreto di archiviazione. Possibile che ancora oggi la donna che subisce violenza debba sentirsene responsabile? Se quindi avesse urlato, sarebbe cambiato qualcosa? Vuol dire che l’atteggiamento di una donna vittima di un’aggressione può fare la differenza? E chi lo misura, questo atteggiamento? Ci aiuta a capire di più Maria Luisa Missaggia, avvocatessa con esperienza trentennale sul campo, fondatrice e presidente di Studiodonne ONLUS, associazione che sostiene le donne vittime di violenza e avvia percorsi di recupero per l’uomo violento. «Nei casi di violenza uno degli elementi più diffusi è proprio l’incapacità di urlare e dare voce alla sofferenza. La vittima di violenza è proprio colei che sul momento ha difficolta di esprimere la violenza o la nega addirittura. In questa indagine sta succedendo la stessa cosa che si è verificata nel caso Grillo, quando Beppe Grillo disse che la ragazza non era stata violentata perché il giorno dopo era andata a fare kitesurf. Ma un conto è che a dirlo sia la controparte, un conto è che questa mentalità appartenga agli organi giudiziari».
Poi la negano gli organi giudiziari
La questione è proprio questa: la mancanza di formazione e di conoscenza dei meccanismi della violenza, che porta poliziotti, carabinieri e poi procuratori a sminuirla o negarla. «Non esistono ancora dei protocolli condivisi a livello nazionale, procedure neutre da seguire di fronte a eventi del genere. Nelle grandi città è più facile trovare operatori formati, che lavorano in équipe e inquadrano i casi di violenza con sensibilità e preparazione. Ma nei piccoli centri, e soprattutto nel Sud, regna ancora il pregiudizio tra le forze dell’ordine e gli organi giudiziari, per cui la violenza non è mai tale e una donna che denuncia sta esagerando o sta dicendo il falso». Proprio come racconta la stessa giovane donna protagonista di questa vicenda: «Provo rabbia perché siamo state considerate delle ragazze “semplici” che sono andate in discoteca per rimorchiare. E rabbia perché tuttora vengono messe in dubbio la credibilità mia e della mia amica. Ma provo anche delusione perché ho avuto l’impressione che non si vedesse l’ora di chiudere il nostro caso chiedendo l’archiviazione in soli 11 mesi, mentre il caso del figlio di Grillo è stato analizzato per quasi 2 anni ed è stato chiesto il processo».
Il clima intorno alle donne le fa sentire responsabili della violenza
Per tutti questi motivi, per una donna chiamare la violenza per nome è difficile. «La difficoltà maggiore che incontriamo noi tecnici nei casi di violenza, è proprio quella di far riconoscere alla vittima stessa di averla subita. Le donne non riescono a guardarla in faccia. In qualche modo si sentono sempre responsabili». Anche la giovane donna violentata in Sardegna ha raccontato la stessa cosa: «Ho paura di quello che potrebbero dire gli avvocati dei ragazzi, di come cercherebbero di farmi passare, di farci passare agli occhi di un giudice».
Le donne hanno paura degli aggressori
Questo si chiama vittimizzazione secondaria, e ha un’altra implicazione: le donne non tutelano mai se stesse, perché tutta la loro attenzione è spostata sull’aggressore e sulla paura delle sue ritorsioni. La grande sfida è rimpicciolire ai loro occhi la figura dell’oppressore, e ingigantire invece se stesse». Si chiama empowerment ed è la chiave di volta per prendere consapevolezza di cosa è successo e decidere, semmai, di denunciare. Non basta ma aiuta quando per esempio le donne devono convivere con i maltrattanti. Non sempre infatti si possono disporre velocemente misure cautelari come il braccialetto elettronico, oppure si riesce ad allontanare la donna. È quindi fondamentale che lei riesca a reagire alla violenza e a sottrarsi ai meccanismi che la scatenano». Anche la giovane donna di cui raccontiamo ha avuto paura dei suoi aggressori: «Uno dei primi stati d’animo è stato un senso di persecuzione. Temevo che avrebbero potuto reagire, magari mandando qualcuno per farmi del male o venire nella mia abitazione e vendicarsi in qualche modo. Fra l’altro continuavano a chiamare il mio numero di cellulare con l’anonimo, spaventandomi».
Il 14 settembre il giudice deciderà sul suo caso. Lei dice: «Spero solamente che possano dare anche a noi la possibilità di batterci in aula e lasciar decidere a un giudice quello che è successo quella notte».