Il dolore straziante di una madre da una parte, la consapevolezza di un problema che va oltre il drammatico caso di Pamela dall’altro. Si è aperto con momenti di tensione il processo per la morte di Pamela Mastropietro, la 18enne romana morta un anno fa a Macerata, dopo aver assunto droga e dopo che il suo corpo è stato sezionato e occultato in due valigie, gettate nelle campagne marchigiane. Unico imputato è Innocent Oseghale, il pusher 30enne nigeriano, accusato di stupro, omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere. Ingente lo spiegamento di forze, che sarà replicato nelle prossime udienze. In aula c’erano i genitori di Pamela, Stefano e Alessandra, affiancati come parti civili dall’avvocato e zio della ragazza, Marco Valerio Verni. Sono 40 i testimoni che saranno sentiti per un processo che scuote le coscienze, perché oltre al caso della giovane vittima si affronta nuovamente il tema della violenza sulle donne e dei femminicidi.
Nel 2015 in quasi 50mila si sono rivolte ai centri antiviolenza (ultima rilevazione Istat). Una donna su tre tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della vita una forma di violenza fisica o sessuale, in 652mila sono state vittime di stupri o tentati stupri (746mila). In Italia, secondo le rilevazioni dei primi se mesi del 2018 di Eures – ricerche economiche e sociali, una donna viene uccisa ogni 72 ore, 3 giorni. Numeri che preoccupano, di fronte ai quali però la neopresidente della Commissione d’inchiesta del Senato sulla violenza alle donne, Valeria Valente, a Donna Moderna dice: “Non è corretto parlare di emergenza, perché questa indica un problema che si manifesta in un tempo limitato o che ha una fase acuta. La violenza sulle donne è invece un fenomeno legato a fattori sociali e culturali, radicato da decenni. Per fortuna oggi emerge anche grazie a una maggiore presa di coscienza da parte delle donne, delle associazioni e degli operatori”.
Cosa si fa contro le violenze
Pamela Mastropietro è una delle vittime di femminicidio, ma anche di violenza, come la ragazza di 17 anni di Roma che si è tolta la vita proprio dopo essere stata vittima. Nel suo caso non è stato possibile alcun intervento di supporto, come invece accade per le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza: 20mila ogni anno che chiedono e ricevono aiuto dalle 85 strutture sul territorio italiano che aderiscono alla rete D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza.“La situazione è preoccupante: le donne ancora oggi non sono credute e si sottovaluta il rischio che corrono nel denunciare. spesso si indagano più le loro responsabilità che non quelle del loro carnefice. Non c’è ancora una rete di protezione utile a contrastare i femminicidi, mancano strutture per l’ospitalità delle vittime, che dunque si espongono a un pericolo ancora maggiore per la reazione dell’uomo violento denunciato” dice a Donna Moderna la presidente di D.i.Re, Raffaella Palladino.
Questi problemi, insieme a quelli cronici di mancanza di risorse, sono contenuti nel Rapporto ombra, presentato da D.i.Re il 26 febbraio a Roma, delle associazioni di donne GREVIO, il Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, che sarà in Italia a marzo. Lo scopo è monitorare l’applicazione della Convenzione di Istambul, che avviene in modo periodico e in questo caso per la prima volta nel nostro paese, dall’11 al 21 marzo.
Al lavoro la nuova Commissione di inchiesta del Senato
A poche settimane dalla visita del gruppo si è insediata la nuova Commissione d’inchiesta del Senato sulla lotta contro le violenza sulle donne, presieduta da Valeria Valente: “Il nostro lavoro, che durerà un anno, è quello di fotografare e monitorare il fenomeno attraverso audizioni, sopralluoghi, analisi di documenti, denunciando eventualmente carenze e arrivando a proposte di legge da approvare in Parlamento. Il fenomeno è ampio quindi dobbiamo scegliere un focus, che io riassumo nelle tre P: punizione di chi compie violenze, con un inasprimento pene e partendo da quanto già fatto, come per esempio l’allontanamento dal domicilio del responsabile; protezione, ossia la presa in carico delle vittime in case rifugio, da potenziale perché insufficienti; prevenzione, da fare soprattutto nelle scuole, perché la violenza è un fenomeno soprattutto sociale e cultura, che si può affrontare e risolvere a partire dall’educazione” spiega la presidente Valente.
Dal codice rosa al bollino rosso
Tra i più recenti provvedimenti ci sono stati l’istituzione del bollino rosso nei tribunali e del codice rosa nei pronto soccorso per le vittime di violenza: “Sono entrambe misure assolutamente utili. Il bollino rosso è una corsia preferenziale che obbliga il magistrato ad ascoltare chi denuncia violenza entro 3 giorni. Sarebbe utile monitorare come si articolerà l’attuazione del provvedimento e come reagiranno le forze dell’ordine: chi accoglierà le denunce, che preparazione ha e che tipo di approccio viene seguito, perché il primo contatto è fondamentale. Una donna che arriva a denunciare non deve sentirsi sola mai e senza le dovute tutele per sé e per i figli” conclude la presidente della Commissione d’inchiesta.
Ma è proprio su quanto accade nei tribunali che si dice preoccupata Palladino: “Ci preoccupa il concetto di alienazione parentale che sta crescendo: nelle consulenze tecniche d’ufficio nei casi di violenze sempre più spesso si ritengono inadeguate le madri i cui figli non vogliono vedere i padri violenti. Il risultato è che i figli sono allontanati in case-famiglia e dunque le donne sono meno propense a denunciare o a chiedere aiuto. Loro, già traumatizzate, sono valutate allo stesso modo dei padri violenti: è una forma di ennesima violenza, ma istituzionale”.
In campo anche banche e sindacati
Per affrontare il problema anche nei posti di lavoro sono scesi in campo anche sindacati (Fabi, First-CISL, Fisac-Cgil, Uilca, Unisin, Falcri, Silcea e Sinfub) e banche, con l’Associazione delle Banche Italiane (ABI), che hanno siglato una dichiarazione congiunta per sensibilizzare e aumentare l’impegno nell’assicurare un ambiente di lavoro più rispettoso. La parola d’ordine è prevenzione, perché non si verifichino più casi di molestie e violenze sui luoghi di lavoro, e affinché non ci sia più tolleranza di fronte a casi già presenti. L’obiettivo non è solo quello di creare una cultura che condanni in modo chiaro e unanime certi comportamenti, ma anche quello di realizzare politiche di sostegno, ad esempio prevedendo un innalzamento del congedo per le donne vittime di violenza previsto dalla legge (lgs 15 giugno 2015 n. 80). Oggi la norma prevede permessi orari o giornalieri per dedicarsi alle cure necessarie post violenza, con un’indennità erogata dall’Inps dietro apposita domanda.