Un filo sottile separa la censura dalla libertà di pensiero. Su questo filo deve correre la nostra domanda: quali diritti hanno gli uomini che commettono delitti gravissimi come la violenza contro le donne? Sono i delitti più gravi, quelli contro la persona, che culminano nel femminicidio. Dobbiamo capire se gli uomini che hanno subito un processo e sono stati condannati hanno davvero il diritto di raccontare la loro storia. Non si tratta di censura ma di trovare un senso civico nel comunicare i fatti. Non si tratta di occultare, ma di parlarne nel modo corretto. Perché un modo corretto esiste.

Lucia Annibali: «La mia storia la racconto io»

Rai Cultura ha deciso di non trasmettere l’intervista del 2016 di Franca Leosini a Luca Varani, condannato come mandante dell’aggressione di Lucia Annibali. Quindi il 22 novembre la replica della puntata non è andata in onda. Lucia Annibali, avvocata e parlamentare, diventata un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne, il volto bruciato dall’acido, scrive un post che diventa virale: «Una intervista ritenuta già inopportuna ai tempi, che mi aveva ferito allora, e che mi ferisce ancor di più oggi. Una decisione che poco ha a che fare con quel senso di cura, di rispetto e di impegno. Per questo, anche oggi, come allora, scelgo di non partecipare allo spettacolo della mia vita. Scelgo di esercitare il mio diritto a non sentirmi omaggiata. Preferisco essere io, ogni giorno, a raccontarmi attraverso le mie scelte, le mie idee, i miei pensieri. A scegliere le parole che descrivono la mia forza e le mie insicurezze, il mio coraggio e la mia inquietudine. Perché so che, le mie, saranno le parole più giuste. Perché la storia è mia».

La vittima finisce sul banco degli imputati

Lucia Annibali è viva e può raccontare la sua storia. Ed è giusto che possa scegliere come mettere in scena la rappresentazione della sua vita. «L’intervista del 2016 di Franca Leosini è un viaggio tra luci e ombre nella versione del colpevole, in cui diverse volte però la vittima finisce sul banco degli imputati. È giusto che in questa narrazioni emergano anche gli errori delle vittime, è doveroso raccontarli, ma vanno spiegati e contestualizzati. E la Leosini non lo fa. In certi passaggi, anzi, si fa fatica a separare vittima e carnefice». Certo di carnefici Roberta Bruzzone, psicologa forense e criminologa, ne ha visti tanti. Ora ne raccoglie alcuni nel libro Favole da incubo (De Agostini) insieme a Emanuela Valente, autrice del blog Inquantodonna, osservatorio permanente sul fenomeno dei femminicidi e della narrazione da parte degli organi di informazione. Un lavoro di anni, in parte confluito in questo libro scritto a quattro mani, che analizza 10 casi di femminicidio (più una storia in cui la vittima resta viva ma sfigurata).

Il colpevole viene quasi giustificato

«Franca Leosini offre a Varani molte scappatoie simboliche, che sono poi gli stereotipi più comuni in cui oggi purtroppo tutti siamo ancora immersi, anche una professionista come lei: l’infanzia difficile, il rapporto controverso con la madre, la rabbia di lui. Come se questi fossero alibi al gesto abominevole commissionato da Varani: la sua fu un’aggressione ignobile, che provocò una mutilazione esistenziale col preciso obiettivo di colpire la capacità seduttiva di Lucia, le sue relazioni, il suo futuro. Non ci sono alibi a questo: agì in modo lucido e consapevole e ad armare gli aggressori fu quella cultura maschilista e patriarcale in cui lui, come tanti uomini, ancora oggi sono immersi».

Gli stereotipi che inquinano la narrazione

Ma ci siamo immerse anche noi donne, in questo mare di stereotipi: l’uomo che mantiene la famiglia, il papà premuroso, la donna che se l’è andata a cercare, lei che lo tradisce e quindi lui è accecato dalla rabbia, lei che l’ha provocato sminuendolo, il raptus, la gelosia, l’ennesimo litigio, il dramma della famiglia come tante, sono i classici stereotipi con cui guardiamo – e raccontiamo – i casi di violenza contro le donne. Stereotipi che, come un virus, appannano il nostro sguardo su questa drammatica realtà, come ci spiega Emanuela Valente: «È doveroso, oggi più che mai, con una donna uccisa ogni due giorni, parlare dei crimini commessi dagli uomini, ma è importante farlo nel modo corretto. E i giornalisti per primi sono chiamati a cambiare il loro linguaggio. È sconvolgente come raccontiamo nel 2020 gli atti violenti contro le donne: mentre negli ultimi decenni abbiamo conquistato tanti diritti e posizioni nel lavoro (avvocati e giudici prima erano solo uomini, per esempio), abbiamo però perso libertà nell’immaginario. Nell’opinione comune, riflessa dai media, oggi siamo quelle che provochiamo e “ce l’andiamo a cercare”. Rispetto a 40 anni fa, i crimini contro le donne vengono raccontati in modo molto più sessista». Emanuela Valente ha studiato i casi di cronaca fino agli anni Settanta, per concludere come i titoli e gli articoli in quel tempo fossero più asciutti e oggettivi. «Non c’erano raptus, non c’erano uomini gelosi, ma solo un uomo che uccideva una donna». Oggi il clima è cambiato. In peggio.

Tutti dobbiamo metterci in discussione

Oggi occorre una riflessione collettiva che accomuni i media, gli uomini e anche le donne. Perché la violenza contro le donne è un problema della società, della cultura e appartiene a tutti, maschi e femmine. I giornalisti stanno cercando di fare la loro parte. Dal 1º gennaio 2021, al Testo Unico che regola la deontologia professionale sarà aggiunto un articolo, il 5 bis, che regolamenta il linguaggio nei casi di femminicido, violenza, molestie. Si invita a evitare stereotipi di genere e non alimentare la spettacolarizzazione della violenza, a non usare espressioni che sminuiscano la gravità del fatto e a limitarsi all’essenzialità della notizia. Ma se i titoli dei giornali e gli articoli sono fitti di frasi fatte e stereotipi, i set televisivi sono un campo minato. Alla trasmissione del 22 novembre di Non è l’Arena in cui si trattava il caso di violenza sessuale commessa da Alberto Genovese, per esempio, perché coinvolgere Fabrizio Corona? «Come gli ex fumatori, Corona condanna quello che ha fatto lui stesso per anni. Sostiene che tutte le feste sono cariche di droga e che quindi sono tutte illegali. Ma qui si sta spostando l’ottica con cui guardare alla violenza. Lo stupro nasce altrove, non dalla droga. La violenza abita nel DNA di maschi che non si sono liberati del patriarcato e della concezione proprietaria del corpo delle donne». Anche per Dalila Novelli, presidente onorario di Assolei Donna Onlus (associazione nel circuito della Casa Internazionale delle donne), oltre che giornalista, è urgente che gli uomini si interroghino sui loro errori e si mettano in discussione. «In quella trasmissione non c’è un’analisi comportamentale critica sullo stupratore e sul fatto che anche gli uomini devono prendere una posizione, respingendo con forza questi comportamenti. Corona poi sostiene che il giornalismo serio è quello in tv e non sul web: osservazione superficiale perché la questione non è il mezzo, ma il modo».

Le vittime devono potersi raccontare

Il mezzo televisivo, anzi, proprio perché arriva a più persone, ha una responsabilità ancora più grande: forse in questo sta la sua “serietà”. Ma va costruita. Sui set finora abbiamo visto sempre solo i colpevoli, e le vittime dove sono? Le donne devono poter raccontare la loro versione. «Dare la parola a un assassino significa ascoltare verità che sono solo di parte, per di più quella sbagliata. Dà modo a lui e agli spettatori di creare un alibi, getta confusione e attira l’attenzione su di sé, ma l’altra parte invece non c’è» sottolinea Emanuela Valente. Manca insomma un format rispettoso: non si può offendere chi non può difendersi. Lo hanno capito perfino in carcere. Barbara Felcini, un master in studi di genere, il suo tempo libero come volontaria a dare supporto alle donne vittime di violenza per Assolei, ci racconta di un progetto europeo di Assolei di “giustizia restaurativa”: «Nelle carceri inglesi si mettono a confronto vittima e carnefice dopo che questo abbia maturato un percorso di comprensione del male commesso, così che la donna in qualche modo possa ricevere una compensazione morale. Se vogliamo portare in tv dei criminali, almeno invitiamo degli uomini che chiedano scusa e abbiano capito i propri errori, non personaggi da tabloid che alimentino la spettacolarizzazione».

I giovani hanno una grande responsabilità

La voce delle donne nei casi di violenza di genere va ascoltata, e noi tutte dobbiamo farci sentire. «L’uccisione di una donna da parte dell’uomo che è stato lasciato e la molestia sull’autobus hanno le stesse radici, che affondano nella cultura patriarcale che respiriamo tutti, anche noi donne e uomini più giovani». Alice Urciuolo ha 26 anni e ha appena pubblicato il suo primo libro, Adorazione, che ruota proprio intorno a un femminicidio, la storia di una 16enne uccisa negli stessi luoghi in cui si svolge il romanzo, l’Agro Pontino.

Un bellissimo romanzo corale di iniziazione, amicizia, amore, violenza fisica e psicologica, in cui tutte le relazioni si interrogano sui temi del possesso e del potere, e ruotano su dinamiche di sopraffazione e disparità tra uomo e donna. «Il femminicidio per i ragazzi diventa quasi un mistero da risolvere – anche se è ben chiaro nella sua drammaticità – perché l’educazione sessuale e sentimentale dei giovani protagonisti va di pari passo con la comprensione di ciò che è successo alla vittima. A poco a poco, diventa chiaro come l’uccisione della ragazza riguardi anche loro, perfino colei che sposerà il benestante, ostaggio -tutti – di stereotipi di genere». Da qui occorre partire: dall’educazione dei nostri figli, fin da piccolissimi, maschi e femmine.