«Nel corso della storia, e in quasi tutte le società, i concetti di contaminazione e di purezza hanno giocato un ruolo di primo piano nel determinare le divisioni sociali e politiche, e sono stati sfruttati da molte classi dirigenti per mantenere i propri privilegi. La paura della contaminazione non è tuttavia una creazione esclusiva dei preti e dei prìncipi. Essa affonda probabilmente le radici nei meccanismi biologici di sopravvivenza, che fanno provare agli umani un’istintiva repulsione verso i potenziali veicoli di malattia, come le persone malate o i cadaveri. Se si vuole tenere isolato un dato gruppo di umani – donne, ebrei, rom, gay, neri – la cosa migliore è convincere la gente che questi individui sono fonte di contaminazione».
Così scriveva lo storico Yuval Noah Harari, allora 35enne, nel suo bestseller del 2011, Sapiens. Sono andata a ritrovare questo passaggio mentre la caccia al cinese contaminato si fa aperta. C’è un nome per ciò che sta succedendo. Lo ha utilizzato l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È “infodemia”, ovvero epidemia informativa: la diffusione di notizie imprecise o addirittura false, quantomeno allarmistiche, circa un’emergenza sanitaria.
E non è il solito web ad avere la responsabilità. Tutti i mezzi di comunicazione, giornali e tv inclusi, anche solo con la scelta dei titoli e della quantità di spazio da dedicare all’argomento, stanno contribuendo a diffondere informazione infetta. Non penso che questa infodemia sia orchestrata da una regia occulta che voglia danneggiare economicamente la Cina o discriminarne le genti. Anche perché siamo a tal punto interconnessi che se il virus stravolge la produzione cinese, a pagarne le conseguenza saranno le economie di tutti quei Paesi che hanno componenti cinesi nei prodotti. Gli Usa in primis.
Ma riconoscere il meccanismo biologico che c’è dietro la paura della contaminazione deve renderci più responsabili nella diffusione delle notizie. Essere informati è un diritto che ha un solo limite: il dovere dell’informazione responsabile.