C’è chi non ottiene un posto di lavoro perché è donna, magari in età fertile, quindi “a rischio” di maternità; chi, invece, non può disporre di denaro, neppure in famiglia, quindi è vittima di violenza economica. E poi c’è chi subisce la vittimizzazione secondaria, forse una delle forme di violenza più subdole e drammatiche, perché arriva dopo una storia di separazione o divorzio, già dolorosa di per sé.

La vittimizzazione secondaria

La vittimizzazione secondaria capita quando le donne che hanno già conosciuto la violenza domestica (spesso davanti ai figli) non sono credute nelle aule di Tribunale, in occasione delle cause che sanciscono la fine di un rapporto e l’affido dei figli stessi; oppure quando devono accettare che proprio questi ultimi abbiano incontri liberi con il padre violento.  
Un fenomeno spesso “invisibile” a cui però la Commissione femminicidi, per la prima volta, ha dato un volto e soprattutto ha cercato di tradurre in numeri, per poi mettere a punto azioni concrete. La fotografia che ne esce, però, non è confortante.

Separazioni, divorzi e violenze: i numeri

Nel 34,7% delle cause di separazione con affido, in Italia, ci sono episodi di violenza domestica. Non va meglio quando i Tribunali sono chiamati a pronunciarsi sulla capacità genitoriale di madri e padri: in oltre un caso su 3 (34,1%) si parla di violenza tra le mura di casa e nel 28,8% dei casi bambini e ragazzi ne sono vittime dirette. Ad aggravare la situazione è il fatto che l’85% delle volte i responsabili sono i padri.

Vittimizzazione secondaria: indagata per la prima volta

A fornire i numeri su fenomeni spesso “invisibili”, perché non riconosciuti dagli operatori nel corso dei processi, è l’ultima indagine della Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere, il cui titolo è significativo perché si parla espressamente anche di un altro aspetto, la «vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza». La relazione, approvata all’unanimità il 20 aprile 2022 e che verrà presentata in Senato venerdì 13 maggio, è definita “storica” dalla Senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione stessa: «È una relazione storica perché è la prima volta che in Italia si indaga la vittimizzazione secondaria che colpisce le donne che hanno subito violenza e i loro figli, e soprattutto perché lo si è fatto con metodo statistico, costruendo un campione rappresentativo della situazione diffusa nei tribunali civili e per i minorenni, e provando quindi finalmente a quantificare un fenomeno che era noto soprattutto a causa delle vicende di cronaca emerse negli ultimi anni – spiega la senatrice Valente – Sono stati analizzati oltre 1.500 fascicoli provenienti da tribunali civili e per i minorenni del Nord, Centro e Sud Italia, relativi all’anno 2017, a 4 anni dall’entrata in vigore della Convenzione di Istanbul che impone di proteggere le vittime di violenza domestica dalla vittimizzazione secondaria».

Il focus sull’alienazione parentale

Al campione, già di per sé rappresentativo di situazioni drammatiche, si è aggiunto il tentativo di analizzare anche il fenomeno dell’alienazione parentale. «È stata aggiunta, infatti, l’analisi qualitativa di 36 casi emblematici che sono stati portati direttamente all’attenzione della Commissione, 25 dei quali riguardavano donne che sono state accusate di aver manipolato i propri figli contro i padri e per questo sono state destinatarie di provvedimenti che hanno limitato la loro responsabilità genitoriale» spiega la presidente della Commissione sul Femminicidio.

Dati alla mano, insomma, è stato ricostruito il percorso che le donne (e i minori) subiscono ancora troppo spesso nelle aule dei tribunali «anche attraverso i pregiudizi e gli stereotipi di cui sono vittime» dice Valente. Restano, dunque, molti e troppi pregiudizi, che portano alla cosiddetta “violenza negata”.

Vittimizzazione secondaria: perché non si crede alle donne

La gravità del fenomeno sta nel fatto che nelle aule di Tribunale, ancora oggi, le donne non sono credute, tanto che si parla di “violenza negata: «È quella subita da donne e bambini che magistrati civili e minorili e consulenti tecnici d’ufficio, assistenti sociali, psicologi non vedono, oppure confondono con il conflitto familiare. È quella che si nasconde dietro l’idea che un uomo violento contro la sua compagna e madre dei suoi figli possa essere comunque un buon padre. È quella cancellata dalla bigenitorialità interpretata come un diritto del padre e non del minore, e dunque imposta anche quando il bambino o la bambina di quel padre violento hanno paura e non vogliono più frequentarlo. È quella che trasforma una donna vittima di violenza in una madre istrionica, ostativa, e soprattutto colpevole: colpevole di alienare i figli dal padre» spiega Valente.

I numeri che fotografano la realtà

Se in passato si poteva parlare di percezioni, ora la Commissione porta i numeri: «L’indagine ci ha permesso di far emergere come nel 34,7% delle separazioni presso il Tribunale civile si è in presenza di violenza documentata con referti medici, denunce, verbali delle forze dell’ordine, relazioni dei centri antiviolenza. Nell’86,9% dei casi la violenza in questi procedimenti vede come vittime le donne. Eppure – e qui veniamo alla vittimizzazione secondaria – questi documenti allegati non sono approfonditi: nel 96% dei casi gli atti dei paralleli procedimenti penali o di quelli presso i tribunali per i minorenni non sono acquisiti d’ufficio dai magistrati civili – prosegue la senatrice – Per quanto riguarda poi i minori soggetti dell’affido, nel 69,2% non è stato ascoltato affatto. Per il restante 30,8% dei minori, l’ascolto viene delegato nell’85,4% dei casi al consulente tecnico d’ufficio ai servizi sociali».

Gli stereotipi sono alla base della vittimizzazione secondaria

Nella relazione si legge che «Come tutta la violenza di genere, anche la vittimizzazione secondaria ha profonde radici culturali: i rappresentanti delle istituzioni, in quanto espressione della società, possono essere portatori, anche inconsapevoli, di pregiudizi e stereotipi di genere che sono alla base della violenza domestica, con possibile tendenza a colpevolizzare la vittima (cosiddetto victim blaming)». Ma come si pone rimedio, concretamente, a questo problema? Quali gli strumenti concreti? «Tengo a sottolineare che molto è stato fatto sia dal legislatore (penso alla riforma del processo civile) che dagli operatori della giustizia (penso alle buone pratiche di molti Tribunali), ma molto resta da fare – spiega Valente – Innanzitutto va applicata pienamente la Convenzione di Istanbul e affermato il principio per cui il diritto alla “bigenitorialità” non può essere considerato superiore a quello del minore di vivere in sicurezza e benessere. Se un uomo è violento, non può essere un buon padre: deve essere evitato quindi l’affido e/o le visite, come abbiamo previsto in un piccolo disegno di legge che abbiamo dedicato a Federico Barakat, il bimbo ucciso dal padre nel 2009 durante un incontro protetto». Ma la presidente della Commissione va oltre: «Come ripetiamo sempre, occorre più formazione specialistica in materia di violenza domestica e assistita per tutti gli operatori della giustizia: avvocati, magistrati, servizi sociali, forze dell’ordine, consulenti tecnici d’ufficio. Poi l’acquisizione degli atti, la comunicazione tra procedimenti civili, minorili e penali, deve diventare la procedura standard, come pure l’ascolto dei minori da parte dei magistrati. Infine, teorie senza alcun fondamento scientifico come l’alienazione parentale, devono uscire definitivamente dalle aule dei tribunali e nessun bambino deve essere allontanato dalla casa materna con la forza pubblica. Tutto questo è possibile se le donne che subiscono violenza sono credute. È questo il primo passo, imprenscindibile» conclude la senatrice Valeria Valente.