Sul numero di febbraio di Vogue America, diretto da Anna Wintour, due copertine celebrano la nuova vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris. In una, quella destinata al magazine di carta, la scritta “Kamala!” accompagna la foto di Harris vestita come spesso l’abbiamo vista durante la campagna elettorale – blazer, jeans e un paio di Converse – e con un’espressione divertita sul volto. Nell’altra, che è una cover digitale, Harris appare invece più istituzionale: completo azzurro chiaro, braccia conserte, il bel sorriso che guarda dritto in camera.

Alla pubblicazione delle due copertine i social sono impazziti, tra chi celebrava il traguardo della prima donna non bianca a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Paese e chi invece si dichiarava deluso, soprattutto dallo scatto scelto dalla redazione per la copertina di carta, quella che, in teoria, dovrebbe essere collezionata e conservata. Look troppo semplice, poco glamour, immagine troppo poco celebrativa. La foto è stata scattata dal fotografo Tyler Mitchell, lo styling è di Gabriella Karefa-Johnson e l’intervista di Alexis Okeowo, tutti afroamericani, ma ciononostante a molti l’operazione non ha convinto fino in fondo. Ecco perché.

Le critiche alla copertina di Vogue con Kamala Harris…

Anche Kamala Harris incappa così nello scivolone della copertina patinata, che patinata non lo è abbastanza, almeno in questo caso. «Questi non sono ritratti ufficiali, ma non sono nemmeno scatti glamour o giornalistici. Esistono nel mezzo. Segnano la storia e catturano la donna che sarà il nuovo vicepresidente. Ma queste immagini aiutano anche a creare una mitologia su una donna nera e sul potere in America», ha scritto la critica Robin Givhan sul Washington Post, sottolineando come la copertina con Harris potesse essere un’occasione per celebrare le donne afroamericane, un’occasione che il giornale, a suo parere, ha sprecato perché troppo impegnato a “umanizzare” una figura di potere, quasi dimenticandosi del ruolo che Harris ricoprirà nella nuova amministrazione. «La storia che Vogue voleva raccontare era quella di una donna americana di padre giamaicano e madre indiana che è arrivata in alto. Tutte le formalità si applicano al suo ruolo, ma perché Vogue se ne è liberato così in fretta? Vogue è andato oltre. È diventato troppo amichevole troppo velocemente. Harris ha fatto la storia. Potrebbe essere un tipo diverso di vicepresidente. Ma non chiamatela Kamala», ha concluso la giornalista.

… e il modo in cui parliamo delle donne di potere (e di come si vestono)

La polemica intorno all’ultima copertina di Vogue non è certo nuova, al contrario si inserisce nel solito dibattito che si tiene ogni volta che c’è di mezzo una donna di potere. In America se n’era parlato di recente quando la giovane deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez era approdata sulla copertina di Vanity Fair nell’ottobre del 2020, e le critiche erano state di segno opposto: troppo modaiola, con tanto di rossetto rosso! In Europa, l’ex primo ministro britannico Theresa May era stata aspramente criticata per la sua passione per le scarpe firmate, mentre l’unica che è sembrata navigare questo difficile territorio con una certa padronanza è stata Michelle Obama, che sulla copertina di Vogue ci è finita due volte, una all’inizio e una alla fine della presidenza del marito, rigorosamente vestita da designer americani, ma è anche vero che il suo non era un ruolo politico vero e proprio. Prima dell’insurrezione a Capitol Hill (e prima che venisse bannato da Twitter), il presidente uscente Donald Trump si era lamentato che Vogue non avesse dedicato nessuna copertina alla moglie Melania.

Certo, non abbiamo mai visto Angela Merkel prestarsi a operazioni di questo tipo. Per cultura di provenienza, probabilmente, e per statura del personaggio, molto probabilmente, fatto sta che per le donne in politica sembra non esistere una via di mezzo quando si tratta di immagine. O devono completamente disinteressarsi del modo in cui appaiono o, quando provano a farlo diventare parte del racconto attorno alla loro persona pubblica, finiscono inevitabilmente per sbagliare. Troppo semplici, troppo fashion, troppo ingessate, troppo frivole.

In Italia abbiamo discusso dei look di Maria Elena Boschi, Mara Carfagna e Teresa Bellanova fra le altre, ma la maggior parte delle nostre parlamentari preferisce sparire in anonimi completi e pettinature demodé per paura di non essere prese sul serio. Eppure l’abito il monaco lo fa eccome, tanto più in politica, e se siamo abituati a non questionare i terribili completi di Boris Johnson, le giacche troppo aderenti di Matteo Renzi e quelle azzimate di Giuseppe Conte, siamo ancora pronti a vivisezionare quello che indossa una donna di potere.