La prima volta che l’ho incontrata, nel suo appartamento all’ultimo piano di un palazzo del centro di Bologna, era in piedi appoggiata alla porta del bagno. Aveva il viso magro e due occhi che ti frugano dentro. Con una mano ha spostato la frangetta castana, con l’altra ha arrotolato il maglione di lana sulla pancia. Era nera. Un’ellisse scura e senza contorni da sotto alla vita scendeva giù, lungo le gambe sottili. «È dovuto al calore continuo a cui sottopongo questa zona – mi dice – l’unico modo per placare questo inferno tra le cosce».
L’autrice di questo articolo ha seguito per un anno una donna colpita dalla vulvidinia, Bruna, insieme alla fotografa Laura Bessega. Qui racconta la sua storia.
Bruna Orlandi ha quarantatré anni e da dieci anni soffre di vulvodinia, un disturbo che interessa la vulva e che provoca dolori, spesso invalidanti. È una “malattia invisibile” perché c’è ma non si vede, e di cui nonostante la diffusione si parla ancora poco. Gli stessi specialisti spesso la confondono con altre patologie e per questo le donne impiegano anni per ottenere la diagnosi. Colpisce il corpo e con esso la femminilità, l’affettività e la sessualità. «Si pensa che la vulva sia solo portatrice di piacere, un luna park insomma – spiega Bruna -. E invece, come ogni parte del corpo, può ammalarsi». Docente e autrice, per prima in Italia ha raccontato la sua storia in un libro autobiografico Nonostante, libera. Il racconto come atto terapeutico (Giraldi Editore, 2018) per ricomporre i pezzi del suo dolore e supportare chi vive la sua stessa difficoltà. Insieme alla fotografa Laura Bessega ho deciso di seguirla nella sua quotidianità per lungo tempo, segnato da momenti di miglioramento e ricadute. Perché la storia di Bruna è anche la storia di molte altre donne.
Una mattina Bruna ha sentito un improvviso dolore al basso ventre, come fosse carne al fuoco. Era aprile 2010, era in auto insieme al compagno e in un breve tragitto urinò fino a dieci volte. Così è cominciato il suo calvario. »Nei mesi successivi ho dormito solo quando il corpo cadeva sfinito – racconta -. Le minzioni erano arrivate fino a cinquanta in ventiquattro ore. Mi ero trasferita sul divano accanto al bagno. Mi tirava l’addome, le gambe e persino il viso. Non bevevo quasi nulla, camminavo con difficoltà, ogni contatto fisico provocava allerta nei miei nervi. In due mesi ho perso anche otto chili».
Nel tempo aveva smesso di guidare, prendere l’autobus, viaggiare, andare al cinema e a teatro. Aveva dovuto lasciare il lavoro e rinunciare ai rapporti sessuali perchè, racconta, «ogni volta stavo male, in media, per un mese e mezzo. Il mio compagno soffriva con me».
La vita aveva iniziato a ruotare intorno ad un unico perno: la ricerca di una diagnosi, tra ambulatori, lettini, esami, tamponi e la rete. «Per un periodo sono stata bulimica di informazioni, digitavo sintomi, passavo ossessivamente in rassegna malattie. Ero entrata nella cybercondria. Io ero diventata la mia malattia”. Il dolore alla vulva intanto aumentava. “Aghi, scariche elettriche, bruciore. L’istinto – dice – era quello di strapparla. Piangevo perché gli esiti degli esami erano tutti negativi e non c’era nulla a cui poter dare la colpa. Il problema era nella mia testa, secondo i medici».
La giostra emotiva era circolare e senza fine: sconforto, depressione, illusioni, momenti di benessere, rassegnazione, vergogna, paura, sconforto. L’impatto sulla vita quotidiana è stato enorme, fino a quando uno specialista ha dato un nome al suo dolore.
Oggi Bruna sta meglio, è sposata e ha una bimba. «Non so se di vulvodinia si può guarire, ma so che trovando il giusto percorso, si può vivere anche bene» spiega. Sul piede ha un tatuaggio. È un nove, un numero che rappresenta la speranza che qualcosa si chiuda per fare spazio ad altro.
Chi ne è colpita spesso se ne vergogna, non ne parla. Bruna invece ha sempre avuto l’esigenza di raccontare la sua storia. Una percentuale delle vendite del suo libro l’autrice ha deciso di devolverla a VulvodiniaPuntoInfo ONLUS, associazione che sostiene le donne affette da tale patologia e che ha scelto l’11 novembre come Giornata internazionale della vulvodinia. Tra le pagine del romanzo una spiazzante ironia, che si fa spazio nella tragicità. “Riesci ad immaginare l’espressione delle persone quando dico: scusate, ho un gran male alla vulva! No, non è come dire che ho mal di testa. Ma se non ne rido – dice – ne muoio”.