Già il nome diceva molto: The Shoah Party. Era stato battezzato così il gruppo WhatsApp in cui venivano diffuse immagini pedopornografiche, di apologia del nazismo, dell’antisemitismo e dell’islamismo radicale. I contenuti venivano condivisi in tutta Italia sugli smartphone di minorenni dai 13 ai 17 anni, rimasti più o meno a loro insaputa coinvolti nella vicenda, vittime del lato oscuro del web.
«Dire che mi è crollato il mondo addosso non rende l’idea» ci racconta (dopo molte ricerche) la mamma di Siena, l’unica che ha denunciato la chat in cui era finito anche il figlio 13enne, dando così il via all’inchiesta ancora in corso. «Ho scoperto l’esistenza del gruppo controllando il cellulare. Mi si sono rizzati i capelli già per il nome. E poi scorrendo c’erano insulti di ogni tipo, bestemmie e video pedopornografici». Lo shock di trovarsi di fronte al lato oscuro dei nostri figli.
Il primo pensiero è stato capire quanto il suo ragazzo fosse coinvolto: «Mi ha rincuorato che lui non avesse mai scritto nulla, ma ho subito chiesto spiegazioni: mi ha risposto che era entrato perché uno degli amministratori, che neanche conosce, gli mandava 5-6 inviti al giorno che gli bloccavano i giochi». Alla mamma non è bastata quella giustificazione e ha deciso di presentarsi con il figlio dai carabinieri. «Non mi reputo coraggiosa. Mi sono semplicemente resa conto che era entrato in un gruppo pericoloso. Su questi argomenti non si può essere superficiali». Tanti altri, però, non hanno seguito la stessa strada: «Davanti agli investigatori ho fatto i nomi anche dei ragazzini che avevo riconosciuto, ma nessun genitore ha deciso di denunciare. Nessuno si è fatto vivo».
Non tutti gli adulti capiscono il disvalore della condotta social del figlio
Secondo Guido Scorza, avvocato e docente di Diritto delle nuove tecnologie, non è sempre così scontato che un adulto comprenda la gravità del comportamento del figlio, findendo per ridimensionarlo e considerarlo una semplice bravata digitale adolescenziale. «La scarsa conoscenza del contesto tecnologico e la diffusa carenza di cultura del rispetto e della civile convivenza spesso portano a questa conclusione» dice Scorza. «Giuridicamente la responsabilità è personale e quindi dell’autore dei contenuti della chat, anche se minorenne. Diverso, invece, è se si prova che il genitore – pur essendo a conoscenza dei tratti illeciti della condotta del figlio – non abbia fatto nulla per fermarlo».
Su questo argomento si è anche appena espressa la Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, che ha fatto un primo bilancio della legge 71 del 2017 sul contrasto al cyberbullismo, esprimendo alcune nuove raccomandazioni: «I genitori devono presidiare l’uso delle tecnologie da parte dei ragazzi e sarebbe necessario anche potenziare la formazione delle famiglie sulla Rete e i rischi» scrive la Commissione. Auspicando anche in futuro clausole di “responsabilità genitoriale” nei contratti con gli operatori telefonici in caso di condotte illecite commesse in Rete dai minori.
Denunciare significa ammettere di aver fallito, di essersi lasciati sfuggire il controllo. Al di là delle implicazioni giuridiche, davanti al caso della chat antisemita ora finita sotto indagine resta il dubbio “morale”: perché la mamma di Siena ha scelto di denunciare e gli altri genitori no? Perché si è sentita in dovere di proteggere la comunità da questo tipo di messaggi, esponendo suo figlio a una lezione esemplare? Secondo Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, ex membro dell’Osservatorio per l’infanzia presso il ministero delle Politiche Sociali e autrice del saggio Generazione H (Piemme), «denunciare significa ammettere di aver sbagliato come madre o come padre, di avere in un certo senso fallito. E richiede una consapevolezza del “virtuale” che oggi non è così scontata: i figli conoscono il digitale meglio dei genitori e dei docenti che a loro volta dovrebbero educare e insegnare. C’è un gap generazionale profondo. Nel caso della mamma di Siena, la donna ha realizzato che qualcosa era sfuggito dal suo controllo e ha preferito affidarsi alla legge: sia per avere un aiuto sia per porre dei limiti, durissimi, agli sbagli del figlio».
«Chi si comporta bene nel reale non è detto che faccia lo stesso nel virtuale. Sottovalutare i messaggi sulle chat e omettere il controllo sui telefoni dei ragazzi è un alibi che gli adulti usano per giustificare le loro mancanze»
Molti cadono nell’inganno del “ragazzo modello” con una doppia vita digitale
Diversa la situazione di un padre di un 12enne di Torino coinvolto sempre nella chat The Shoah Party: rimasto all’oscuro per mesi, si è visto arrivare in casa le forze dell’ordine con un decreto di perquisizione. «Erano le 6 del mattino quando i carabinieri hanno suonato il campanello» racconta. «Mi hanno detto che erano venuti per mio figlio e parlandomi di foto e video pensavo a immagini hard. Invece mi sono ritrovato davanti a materiale pedopornografico. Io e sua mamma non sappiamo cosa lo abbia spinto a entrare in quella chat: è un ragazzo che fa sport, ha bei voti. Mai ci saremmo immaginati una cosa del genere».
L’inganno del figlio modello è una trappola in cui è facile cadere: «È errato pensare che chi si comporta bene nel reale non sia capace di commettere azioni riprovevoli sul web» dice Maria Rita Parsi. «I ragazzi spesso hanno una doppia vita virtuale. Sottovalutare i loro messaggi sui social, così come omettere il controllo sui loro telefoni, è un alibi che gli adulti usano per giustificare le proprie mancanze».
Anche il diritto, oggi, non fornisce risposte accurate: «C’è un’autentica emergenza di tipo educativo» sostiene Guido Scorza. «Finora si è pensato che fosse solo un fatto di ricambio generazionale e che il tempo sarebbe bastato. Invece, la cultura digitale si fa a scuola, in famiglia, in tv. E anche con le leggi: si potrebbero prevedere dei “Daspo” dai social, un bando da WhatsApp finché il ragazzino completi un percorso di educazione civica digitale». Anche se centrale resta sempre il ruolo e il controllo dei genitori. «Mio figlio non ha più visto il cellulare per mesi ma resta un accordo: devo conoscere ogni sua password» dice la mamma di Siena. «Ancora non gli ho restituito lo smartphone» aggiunge il papà di Torino. «Se l’avessi saputo prima l’avrei certamente obbligato a uscire da quella chat. Ma non so se avrei avuto il coraggio di denunciarlo».
GLI STUDENTI PASSANO 5 ORE AL GIORNO SUL WEB
Secondo una ricerca condotta da Skuola.net, la Sapienza di Roma e l’università Cattolica di Milano per conto della Polizia di Stato, circa la metà degli studenti (il 45%) passa su Internet almeno 5-6 ore al giorno e controlla lo smartphone ogni 3 minuti. L’11% utilizza il web per interrogare i motori di ricerca; il 10% si dedica ai giochi online o alle app per lo svago; il 42% usa Internet per i social.