Una nonna napoletana, una bimba di colore. La nonna fa il bagno alla bambina e intanto le dice: «Tu sei bellissima ma se fossi bianca saresti più bella». Sono passati più di vent’anni, la nonna non c’è più, la bambina è diventata una donna ancora più bella: si chiama Lidia Carew, ha 31 anni, è una performer e un’attrice di successo. Si è diplomata nell’Accademia di danza della compagnia di Alvin Ailey a New York, ha ballato in video musicali di Alicia Keys e Pharrell Williams, ha lavorato con Spike Lee ed è stata ospite fissa della trasmissione di Piero Chiambretti La repubblica delle Donne. Per combattere gli stereotipi culturali che si nascondono in azioni e frasi come quella di sua nonna, ha fondato anche un’associazione no profit, Lidia Dice, con una mission: supportare “talenti improbabili”.
Cosa sono i “talenti improbabili” Lidia? «Sono tutti quelli che le persone non pensano di avere, perché lontani dai canoni tradizionali: è la società che detta le regole e, se non rientri in quei criteri, arrivi a pensare proprio questo, di non avere talento. L’obiettivo della mia associazione è quello di creare opportunità di formazione e di lavoro per tutti questi ragazzi».
Come hai cominciato? «Un giorno ero su un treno, era il 2016. Ho visto una ragazzina seduta vicino alla madre, capivo che era una ballerina dalla postura, aveva uno sguardo triste. L’ho avvicinata, mi ha raccontato che era appena stata bocciata all’Accademia di danza di Roma. Allora le ho presentato un’insegnante che è riuscita a prepararla per una nuova audizione e ce l’ha fatta. Arianna è stata la prima, poi ce ne sono state altre, come Agnese che ho visto ballare in un centro commerciale e ho convinto a iniziare una carriera professionale. Mi rispecchiavo in tutte quelle ragazzine, e desideravo che avessero fiducia nel fatto di poter sognare in grande».
Anche tu sei stata un “talento improbabile”? «Sì, per accogliere il mio talento ho avuto bisogno di molto tempo. Mia nonna mi diceva quelle cose sul colore della pelle con amore. Desiderava il meglio per me ma era convinta che non avrei mai potuto averlo, perché ero nera. E io, anche se ero piccola, capivo benissimo che cosa voleva dirmi. Per tutta la mia adolescenza sono stata in guerra con me stessa: avevo le spalle larghe, una corporatura atletica, mi sentivo più simile a un uomo che a una donna, del tutto lontana da quello che io immaginavo essere la bellezza femminile».
È stata la danza a farti riconciliare con la tua bellezza? «Non subito, mi sono sentita fuori posto anche se adoravo ballare. Le altre avevano un fisico minuto, completamente diverso dal mio e le scarpette rosa facevano un altro effetto sui miei piedi scuri. Mi sentivo inadeguata anche se ero brava».
E poi che cosa è cambiato? «A 20 anni a Milano ho visto uno spettacolo della compagnia di Alvin Ailey, un gruppo di ballerini atletici e di colore. Quella sera ho pensato che finalmente avevo trovato il mio posto. Sono partita per New York e sono riuscita a entrare nella loro accademia di danza. Sono stati anni felici, dal punto di vista della professione, perché sono riuscita a spingere il mio corpo oltre i limiti mentali che mi ero sempre costruita, oltre l’ansia e la paura di non farcela».
Che cosa è per te oggi l’identità? «Una questione molto più complessa del colore della mia pelle: quando ero in America se da un lato i neri esteticamente erano molto più simili a me, le mie tradizioni, le cose che mi piacevano, il mio carattere erano italiani. Mia mamma è italiana e mio padre è nigeriano. Il colore della pelle mi ha sempre legata a lui ma non ho mai avuto familiarità con la sua mentalità e la sua cultura e, da piccola, quando incontravamo i suoi amici non capivo né la lingua, né il loro modo di stare insieme. Quando uscivo con mia mamma invece gli sconosciuti le chiedevano se ero sua figlia. È una domanda che ti sega le gambe, perché una delle poche cose che sai durante l’infanzia è che quella è tua madre: se gli altri mettono in dubbio la tua prima certezza come fai a non sentirti inadeguata e spaventata?».
Tra meno di un mese nascerà il tuo bambino. «Anche lui sarà un “figlio di mezzo” perché il mio compagno (l’attore e conduttore radiofonico Matteo Caccia ndr) ha la pelle bianca. Io non voglio che queste situazioni lo colgano impreparato. L’ultimo progetto della mia associazione, Figli≠Genitori, è nato anche per aiutare bambini come il mio. Attraverso testimonianze reali racconta il rapporto tra genitori e figli e l’accettazione delle diversità. Molte famiglie affrontano situazioni nuove e non hanno parole e gesti pronti per l’uso. Hanno bisogno di rispecchiarsi nei vissuti di altri. Se mia mamma quando ero piccola avesse letto o visto storie di bambini misti, forse avrebbe capito meglio i miei bisogni».
Nella docu-serie però non si parla solo di colore della pelle. «Si può essere figli di mezzo in tanti modi. Una persona gay non ha i gusti sessuali di mamma e papà. Un disabile non usa il suo corpo come lo usano il padre e la madre. È un progetto che celebra la bellezza della diversità. Perché se siamo contornati quotidianamente solo da messaggi di un certo tipo è come se vivessimo con l’algoritmo di Instagram che ci propone continuamente contenuti simili a quelli a cui mettiamo like. Smettiamo di vedere il resto del mondo».
C’è una storia che ti ha colpito più delle altre? «Forse quella di Agnese, una ragazza albina. Parlando di sé ha raccontato che quando passeggia con le sorelle, la gente le chiede chi è lei. Come se dovesse sempre confermare di essere figlia dei suoi genitori, ed è quello che capitava anche a me. L’identità nasce nella famiglia e, se metti in dubbio quella, metti fuori gioco una persona in partenza».
Conosci già il sesso e il nome di tuo figlio, ma non il colore della sua pelle. A chi vorresti somigliasse in questo?
«Ci ho pensato a lungo e, se potessi scegliere, vorrei che mio figlio avesse i miei colori. Per due motivi, perché ovviamente avrebbe in sé una parte importante di me e perché questo colore forse lo farà camminare su un percorso diverso, a volte difficile, ma sicuramente unico e bello».
Genitori e figli coraggiosi
Cosa succede quando in famiglia arriva un bambino diverso dai genitori? Nel progetto di Lidia Carew a prendere la parola sono proprio loro, i figli di mezzo, quelli con una distanza da colmare e una identità più difficile da trovare. Figli ≠ Genitori è una docu-serie che si può seguire sul profilo instagram @lidiacarew e nel sito www.lidiadice.com. I video ripescano immagini degli album di famiglia e raccontano schegge di vita forti e commoventi che celebrano la bellezza e la fatica della diversità.
Una dozzina di storie (ma il progetto continuerà a raccoglierne e a raccontare) che hanno per protagonisti ragazzi come William, non vedente, Valentina, ammalata di displasia diastrofica, e Khadim, promessa del basket e giovane di colore nato e cresciuto in Italia. Ma anche il campione mondiale paralimpico Daniele Cassioli: «Nessuno è allenato a fare il genitore di un figlio non vedente, abbiamo tutti imparato. Adesso sono Daniele che vince ma prima ero Daniele che non ci vede, a 20 anni la mia fidanzata mi ha lasciato dicendomi che non potevo proteggerla e ho pensato di essere un uomo di serie B».