Succede che per uscire da una gabbia ci infiliamo in un’altra, costruita da noi, con le pareti invisibili e il soffitto azzurro cielo. Una gabbia di cui non ci accorgiamo finché il malessere che ci aveva spinto fuori dalla prima si ripresenta intatto nella seconda. È successo, per esempio, quando ci siamo accorte che i canoni della bellezza, benché in continua evoluzione, ci stavano stretti. Poi quei canoni hanno iniziato a essere sempre più irraggiungibili, complice il fotoritocco. Infine, grazie all’esplosione dei social network, sono divenuti, al nostro sguardo, più familiari di quanto non lo sia la nostra comune imperfezione. È allora che abbiamo iniziato a dirci che l’imperfezione ci rende speciali, che siamo tutte belle, alte e basse, grasse e magre, e che dobbiamo piacerci e accettarci per come siamo. Tutti concetti che oggi rappresentano un vero e proprio movimento, riunito attorno allo slogan #bodypositive, che riempie i giornali, i social network e l’internet di nuovi modelli di bellezza.
Il malessere, però, è ancora lì. Riconoscersi in un contromodello è difficile quanto riconoscersi in un modello. Quello curvy può essere inarrivabile, per armonia e generosità delle forme. Anche un bellissimo volto pieno di lentiggini o una meravigliosa testa afro può farci sentire inadeguate con le nostre efelidi e i nostri ricci. E le protesi di un atleta paralimpico fanno ben altro effetto su un corpo comune. Senza andare troppo lontano, spesso fatichiamo ad accettare l’immagine riflessa nello specchio per un motivo invisibile ai più, evidente solo a noi stesse.
Cosa significa questo? Che non c’è via d’uscita? Che non faremo mai pace con il nostro corpo? No. Ma che forse quella di piacerci a tutti i costi e di accettarci per ciò che siamo è una nuova gabbia. Che, come la precedente, continua a professare la dittatura del corpo e dell’immagine sulla nostra felicità. Che continua ad attribuire all’involucro un valore sproporzionato rispetto al contenuto.
I cammini di rivoluzione passano sempre per questo paradosso. Per liberarci da uno schema di pensiero, finiamo intrappolati in un altro, fino al giorno in cui capiamo che ci rende ugualmente schiave. Ma non dobbiamo temere le deviazioni che imbocchiamo lungo la strada. Perché sono la condizione per cui capiamo qualcosa di più. Senza l’allargamento dei canoni di bellezza, senza la filosofia positiva sul corpo, senza il concetto di inclusione della diversità, non saremmo mai arrivati a questo livello di consapevolezza. Nel mondo anglosassone la chiamano body neutrality: ossia considerare il corpo in maniera neutrale, per ciò a cui è funzionale, senza attribuirgli il valore di una dichiarazione politica, senza far dipendere da esso la nostra identità. Chiamamolo come vogliamo, all’inglese o all’italiana. Noi lo abbiamo riassunto in una parola, libertà. Di piacerci, ma anche no.