Con la sua mano “bionica” Maria Fossati sa stringere quelle degli altri, temperare le matite, piantare chiodi e avvitare le lampadine. La indossa ogni giorno appena arriva in ufficio: sfila con cura la sua protesi estetica e calza questo meraviglioso gioiello tecnologico con la stessa soddisfazione con cui indosserebbe un abito da sera cucito su misura.

Maria è una designer: 40 anni, un figlio di 6, una laurea e un dottorato al Politecnico di Milano, lavora all’Istituto italiano di tecnologia di Genova (Iit) e, oltre a partecipare alla progettazione, sta sperimentando in prima persona la SoftHand Pro, protesi robotica sviluppata nell’ambito di un progetto europeo con l’Università di Pisa e capace di “avvolgere” gli oggetti come una mano in carne e ossa.

Le mani meccaniche sono il passato

Oggi Maria sorride quando racconta che proprio lei, priva dalla nascita dell’avambraccio sinistro per un’anomalia congenita, le protesi meccaniche non le ha mai sopportate. «La mia normalità è stata sempre il finto braccio di gomma. Il primo arto meccanico l’ho provato a 12 anni, una protesi mioelettrica che sfruttava gli impulsi elettrici dei muscoli per guidare semplici movimenti della mano. Sarebbe dovuta essere una conquista, ma per me portarla era una tortura: era pesante e scomoda, il suo rumore mi faceva orrore. Appena tornavo a casa, dopo ogni visita, la rimettevo in un cassetto, e così è stato per tutte le altre che i miei hanno comprato per anni».

Maria Fossati
Maria Fossati

Maria provava quello che provano molti nei suoi panni: l’insofferenza nell’adattarsi e nell’imparare a governare qualcosa che si sente altro da sé. Fino a quattro anni fa, quando ha scoperto che la robotica moderna ha cambiato passo. «Facevo la designer e vivevo in Toscana. Un amico che collabora con il team dell’Iit guidato dal professor Antonio Bicchi a Pisa mi parlò di una nuova idea di protesi agile, e mi chiese se avevo voglia di testarla. Dissi di sì e fu una scoperta: era leggera e supertecnologica. A guardarla però mi sembrava la mano di un robot infilata in un guanto da lavoro e dissi chiaramente che bisognava lavorare sull’aspetto estetico e sulle proporzioni».

Suggerimento dopo suggerimento Maria è diventata parte del gruppo di lavoro dell’Istituto genovese, come designer, per cercare di dare concretezza a concetti come libertà, bellezza, leggerezza, che sono oggi la base della protesica più innovativa. «La protesi non è più qualcosa che scimmiotta l’arto in carne ossa, ma un oggetto funzionale, bello da vedere, da mostrare con orgoglio perché ci rende unici. Io mi sento me stessa con questo arto e la società è matura abbastanza per guardarlo per quello che è, un’invenzione meravigliosa».

Gli arti che “sentono”

«Questi oggetti sono sempre più cuciti sulla persona» conferma Gregorio Teti, ingegnere e direttore tecnico Area produzione del Centro protesi dell’Inail di Budrio, dove è passato tra gli altri Alex Zanardi. «Grazie alle stampanti in 3D riusciamo a realizzare arti che aiutano il paziente a “sentire” ciò che toccano. Sono leggeri, in materiali come il titanio che evidenziano l’aspetto bionico».

Ginocchia artificiali “intelligenti” che capiscono quando la persona è in piedi o seduta, piedi in carbonio leggeri ed elastici che accompagnano il movimento: la protesica è questo. In Italia il Servizio sanitario copre solo fino a una certa soglia il costo di questi dispositivi avanzatissimi, con la sola eccezione delle disabilità causate da incidenti sul lavoro, ma la tecnologia intanto va avanti. «Puntiamo a integrare gli arti con le ossa, usando tecniche utilizzate negli studi dentistici. Oggi è possibile ricostruire in questo modo parte delle dita» spiega Teti. L’obiettivo è far “parlare” le macchine con il sistema nervoso.

La Softhand, per esempio, è al centro di un altro progetto finanziato dall’Unione europea, il Synergy Grant Natural Bionics, che prevede di impiantarla nel braccio, collegarla per via neurochirurgica con i circuiti spinali dei pazienti e permettere a chi la indossa di recuperare persino il senso del tatto.

La protesi non è più qualcosa che scimmiotta l’arto naturale, ma un oggetto funzionale, da mostrare con orgoglio

Apparecchi acustici invisibili

Progettare dispositivi sempre più integrati, belli e intelligenti è anche la nuova frontiera degli apparecchi acustici, ambito che riguarda soprattutto gli anziani: «Dal primo calo di udito in media passano sette anni prima che la persona richieda un apparecchio perché c’è una certa resistenza nel “mostrarsi” agli altri» spiega Michele Ricchetti, responsabile Ricerca e Sviluppo di Linear, tra le principali aziende del settore.

Anche per questo la ricerca sta lavorando per rendere i dispositivi via via più sofisticati ed eleganti. «Gli apparecchi endoauricolari, definiti interni, sono ormai quasi invisibili, i retroauricolari, che si posizionano dietro le orecchie, hanno cover colorate in silicone, e ve ne sono in fibra di carbonio, belli da vedere come il motore di una Ferrari». Molti dispositivi, poi, collegano il paziente con l’esterno a 360° connettendosi via bluetooth anche a smartphone e tv. «L’obiettivo è renderli “invisibili” anche al cervello» spiega l’esperto. «Grazie all’intelligenza artificiale riusciamo a calibrare il suono esterno a seconda della corporatura del paziente e presto gli apparecchi capiranno se ci si trova in un ambiente silenzioso o rumoroso, se c’è musica o brusio, regolandosi in automatico. Quando accadrà ci si dimenticherà di portarli».

Cybathlon, la gara bionica

Per qualcuno sono ormai le “Olimpiadi bioniche”. Stiamo parlando di Cybathlon, l’evento organizzato dal 2016 dal Politecnico Federale di Zurigo e che quest’anno si terrà nella città svizzera il 13 e il 14 novembre da remoto. Una gara tra cyberatleti, persone dotate di arti robotici, che si sfidano nel compiere attività quotidiane come stendere i panni, tagliare un foglio con le forbici o salire le scale di corsa. Quest’anno gareggeranno atleti di 23 Paesi in 70 squadre, Maria Fossati sarà pilota del team Soft Hand, una delle due squadre dell’Iit che parteciperanno. Lo scopo della manifestazione, oltre che attirare l’attenzione sui bisogni di chi convive con una disabilità, è promuovere la collaborazione tra i centri di ricerca per sviluppare protesi sempre più funzionali.