«Tra me e mia figlia ne abbiamo almeno un centinaio. Li collezioniamo, un po’ come si fa di solito con scarpe e borse». A parlare così, del velo che indossa da quando aveva 13 anni, è Sumaya Abdel Qader, 42 anni, nata a Perugia da genitori giordano-palestinesi e trasferitasi a Milano per amore e per studio 22 anni fa. «L’ultimo che ho comprato è color corallo (che indossa nella foto ndr): è il mio preferito perché si abbina alla perfezione a una borsa che adoro» racconta Sumaya, mamma di 3 figli (2 femmine e un maschio), con 3 lauree (in biologia, mediazione linguistica e sociologia), prima consigliera musulmana del Comune di Milano e scrittrice: nel 2019 ha pubblicato Quello che abbiamo in testa (Mondadori) e adesso sta lavorando ad altri due libri. Ascoltarla parlare, con un sorriso, caldo e avvolgente come la più morbida delle coperte che potremmo sognare, è una boccata di ossigeno. Perché la sua pacata lucidità e la sua dolce fierezza sembrano fornire l’unica risposta sensata a ogni nostro dubbio, a ogni nostra incertezza: libertà.
Non a caso la protagonista del suo libro si chiama Horra che in arabo significa “libera”. «Sì, Horra è una ragazza felice che si ribella alle regole religiose interpretate in modo estremo e che indossa il velo, per scelta, non per imposizione».
Come lei. «Esattamente. Io ho deciso di metterlo da ragazzina. E l’ho fatto in totale libertà. Anzi, si figuri che mia mamma era contraria… Per me è un percorso di fede, un esercizio spirituale, una cosa tra me e Dio. Un gesto bello, forte e femminile, di cui non mi sono mai pentita».
Sempre nel suo romanzo lo definisce come un atto femminista, di emancipazione, ribelle. Ce lo spiega? «In parte è una provocazione, ma non del tutto. Portare il velo è un gesto femminista perché per me femminismo significa garantire alle donne la possibilità di autodeterminarsi, emanciparsi e fare delle scelte secondo la loro coscienza e il loro piacere. Per questo non può essere imposto. Ma non si può neanche impedire di portarlo. Non esiste un solo modo di essere libere. E non esiste un solo modo di sentirsi belle».
«Mio marito Abdallah, che è un dentista, stira di solito tutte le sue camicie, i veli miei e di mia figlia e i vestiti dei nostri ragazzi. Lo tengo lontano solo dalla cucina, quello è il mio regno perché adoro cucinare»
In che senso? «Per me portare il velo è anche un atto ribelle. Perché chi lo indossa rompe gli stereotipi di bellezza, va oltre gli schemi contemporanei di femminilità. Spesso si pensa che l’hijab voglia negare la bellezza delle donne. In realtà, non è così: la esalta. Perché incornicia il viso ancora meglio di un taglio di capelli e mette in evidenza gli occhi. Basta pensare che nell’ultima sfilata di Max Mara ha sfilato una modella velata. Un vero schianto!».
Quindi lei con il velo si sente bella? «Bella non so. Ma sicuramente mi sento bene, a mio agio. Insomma, felice. Certo, da ragazzina quando a scuola ero l’unica a indossarlo, non era proprio il massimo. Anzi, diciamolo, ero la sfigatissima del gruppo. Per fortuna adesso però per le ragazze è diverso. Lo vedo con mia figlia più grande che lo indossa anche lei».
Cosa è cambiato? «Sicuramente i veli. Ce ne sono di bellissimi, anche in coordinato con le mascherine. Ma soprattutto la mentalità dei ragazzi. Il loro è uno sguardo di normalità, a volte anche di ammirazione, quasi a dirci: “Braveee!”. Come se indossassimo una borsa, uno zaino, niente di strano né di diverso. Al massimo nei loro occhi ci può essere un briciolo di curiosità, come quando ero ragazzina io, e i miei compagni mi chiedevano: “Sei una suora? A che ordine appartieni?”».
E invece negli occhi degli adulti cosa nota oggi? «Purtroppo dall’11 settembre è cambiato tutto. E ancora adesso, dopo tanti anni, lo sguardo della maggior parte delle persone è uno sguardo di diffidenza, di paura, di intolleranza. Uno sguardo che pesa. Che umilia. Che fa vacillare. Che spinge molte ragazze a cambiare idea».
A togliersi il velo quindi? «In questi ultimi anni assistiamo al fenomeno della “dehijabization” per cui molte giovani musulmane decidono di togliersi il velo. Non tanto perché, come succedeva ai miei tempi, non si sentono belle come le loro coetanee. Ma perché hanno paura di come verrebbero accolte al lavoro o a scuola. Perché il velo le rende subito visibili, subito riconoscibili, subito attaccabili. Insomma, diventano un bersaglio».
E cosa si potrebbe fare per cambiare quello sguardo? «Bisogna stravolgere gli stereotipi che vedono il velo come segno di oppressione, come sinonimo di violenza e terrorismo. Il modo migliore è far conoscere la pluralità e la quotidianità del mondo musulmano».
In pratica quello che ha fatto Skam, la serie cult su Netflix? «Esatto. Skam ha fatto più di quanto non abbia fatto un’intera generazione. Quando il regista mi ha chiamata per costruire il profilo di Sana, la ragazza musulmana protagonista della quarta stagione, ero felicissima. “Mamma, finalmente una musulmana con il velo in tv!” hanno esclamato le mie figlie. E grazie a quella serie il pubblico ha imparato a conoscerci, a comprenderci, anche ad amarci. Ma soprattutto ha imparato a non aver paura di noi. Un bel passo avanti, che dite?».
Intervista finita. Prima di salutarci, però, Sumaya mi dice ancora una cosa: «Spesso siete voi ad avere paura di noi. Ma è vero anche il contrario». E quando le chiedo a cosa si riferisce, mi racconta delle minacce di morte che ha ricevuto. E che cerca di allontanare dalla mente. «Perché la paura separa, il dialogo e la bellezza avvicinano».