Mi è andata bene: nella lotteria cosmica che sorteggia dove nascerai, a me è capitato il mare.
Dovunque mi voltassi, ogni giorno trovavo il suo abbraccio pieno e azzurro, ma d’estate anche di più. Perché la mamma e la nonna facevano le pulizie negli stabilimenti balneari del paese, mi portavano là all’alba e restavo sulla spiaggia fino a sera.
Probabilmente c’erano mille occhi a vegliare su di me, tra amiche e conoscenti loro e il bagnino che era il cugino del babbo, ma io non me ne accorgevo ed era stupendo girare così, libero e cotto dal sole e dal sale tra gli ombrelloni delle famiglie dei villeggianti.
Venivano da Milano, Parma, Brescia, Modena, Torino e altri posti che avevo sentito a scuola ma non avevo visto mai, ed erano gentili perché mi credevano un orfanello sventurato e senza tetto, che viveva sulla spiaggia come certi bimbi in Brasile.
E io non li smentivo, perché così mi offrivano panini, merendine e succhi di frutta, mentre giocavo coi loro figli che in questo modo potevano conoscere culture esotiche e diverse, e capire quanto erano fortunati a vivere in una casa vera, con una famiglia intorno che si prendeva cura di loro.

Mare spiaggia

Ma in realtà, appunto, quello fortunato ero io. Come il cane randagio nella favola che mi raccontava sempre il babbo, un cane che aveva fame e freddo e cercava qualcosa da mangiare, e a forza di girare incontrava un altro cane che invece aveva una cuccia comoda e calda e una ciotola sempre piena di cibo. Il randagio lì per lì pensava che quello fosse il cane più fortunato del mondo, poi però si accorgeva che una catena lo teneva legato lì, allora il randagio capiva che non c’era cibo e non c’era tetto che potessero valere la sua libertà.
E io uguale identico. Giocavo e correvo e urlavo quanto volevo, e facevo il bagno quando ne avevo voglia, senza aspettare le famose tre ore dopo aver mangiato. Mentre gli altri restavano alla catena lì sotto l’ombrellone, con materassino e canotto e maschera da sub e altre meraviglie che non potevano usare, io mi tuffavo felice e a quei ragazzini non invidiavo nulla di nulla.
Anzi, una cosa sì: quando mi raccontavano la loro vita in città, era sempre uguale e noiosa, tra scuola e doposcuola, lezioni di pianoforte e ginnastica artistica, ma certe volte, il sabato o la domenica, i loro genitori li portavano in gita nei parchi o addirittura sui monti, “a vedere la Natura”.


Poi su per la strada piena di tornanti fino alle Alpi Apuane. Che sono alte e gonfie di boschi, e dal nostro mare sono assai vicine e si vedono benissimo, ma noi non ci andavamo mai. Ci bastava tenerle lì come sfondo, come un quadro appeso dall’altra parte dell’orizzonte.


E questo mi suonava tanto bene. Non sapevo cosa volesse dire, “vedere la Natura”, però quelle parole mi incantavano, e la notte mi rigiravo nel mio letto pieno di sabbia e salmastro e me le ripetevo da solo. Ma devo averle dette pure al mio babbo, tante volte che una domenica di giugno ha detto basta, mi ha preso di peso e mi ha infilato sul furgone, tra tubi e chiavi inglesi e matasse di stoppa, poi su per la strada piena di tornanti fino alle Alpi Apuane.
Che sono alte e gonfie di boschi, e dal nostro mare sono assai vicine e si vedono benissimo, ma noi non ci andavamo mai. Ci bastava tenerle lì come sfondo, come un quadro appeso dall’altra parte dell’orizzonte.

Infatti era la prima volta che ci salivo, e non avevo la minima idea di cosa avrei trovato. Ma avevo visto un sacco di cartoni animati, quindi mi aspettavo scoiattoli simpatici e scherzosi, uccellini felici che cantavano, coniglietti buffi e volpi furbe e chissà quanti altri animali intorno a noi.
Con questo spettacolo in testa sono sceso dal furgone, e avanti a piedi per un bel pezzo nel folto del bosco, emozionato ma pronto a scappare a ogni rumore, perché lo zio diceva che quassù c’erano milioni di vipere, in mezzo all’erba e sotto i sassi e pure appostate in cima agli alberi, per saltarti addosso quando passavi.

Ma non ne ho vista una per tutto il cammino, fino a un punto in cui il bosco si apriva in uno spiazzo, un piccolo torrente suonava una musica dolce tra i sassi e c’era un masso accanto all’acqua dove il babbo si è seduto e si è acceso una sigaretta. Io invece sono rimasto in piedi a guardarmi intorno, perché non volevo perdermi un solo animale dei mille che vivevano da quelle parti. Ma nel torrente non c’erano pesci, non un uccello nell’aria, nemmeno una bestiola nell’erba a salutarci. Solo gli alberi, il suono del torrente, l’odore di muschio e noi due.


Il bosco si apriva in uno spiazzo, un piccolo torrente suonava una musica dolce tra i sassi e c’era un masso accanto all’acqua dove il babbo si è seduto e si è acceso una sigaretta. Io invece sono rimasto in piedi a guardarmi intorno.


E allora il babbo, in un bisbiglio: «Allora, Fabio, la vuoi vedere la Natura?». Io ho fatto di sì, certo che sì, eravamo venuti apposta fin quassù. Ma non capivo: non la stavamo già vedendo, la Natura?
Lui ha scosso la testa, ha succhiato un altro po’ di fumo, poi: «Se la vuoi vedere davvero, bisogna che stiamo fermi e zitti per un bel po’».
«Un bel po’ quanto?»
«Assai. Mezz’ora forse. Magari meno, magari di più. Però poi la vediamo davvero, la Natura».
Ho risposto di sì, e il babbo mi ha fatto segno di sedermi accanto a lui sul masso e stare zitto.
Ogni tanto provavo a chiedere quanto mancava, ma lui stringeva le labbra per farmi tacere, e avanti così per un tempo che non saprei dire quanto.
Poi, dal nulla, un fruscio veloce nel cielo sopra di noi, come una freccia di passo. Era un uccello che andava a posarsi chissà dove. Poi un altro, e un altro ancora, sui rami lassù. Un fischio, due, si sono intrecciati in un’unica canzone, interrotta solo a tratti per cogliere gli insetti che intanto erano saliti pure loro a riempire l’aria, mentre le trote nell’acqua erano uscite dalle loro tane sotto i sassi e danzavano con gli occhi verso la corrente. Lì accanto, lungo la riva, l’erba cominciava a tremolare e ogni tanto spuntava la testa di un animaletto che non riconoscevo, insieme al resto del bosco che piano piano si accendeva intorno a noi, di vita e suoni e bellezza. E io guardavo tutto con gli occhi spalancati e il cuore che scoppiava di emozione, perché finalmente eccola qua intorno a me, la Natura.

Avevo mille parole, mille domande a gonfiarmi il petto, ma dovevo restare in silenzio e allora me le tenevo dentro, fino a sera quando siamo tornati giù al furgone, e lì le ho rovesciate addosso al babbo. Da dove venivano tutti quegli animali? E come mai all’inizio non c’erano? E dov’erano nascosti? E come mai dopo erano venuti fuori? E… E lui, con un’altra sigaretta in bocca: «Se n’erano andati perché siamo arrivati noi. Gli abbiamo fatto troppe schifezze alla Natura, e ormai, quando ci vede, scappa. La Natura è dappertutto, Fabio, Natura è tutto. Però scappa se ci siamo noi. Capito?».
«Sì babbo, ho capito! Ma domenica mi ci riporti?»
«Dove?».
«Nella Natura».
«Ecco, vedi che non hai capito nulla».
«Ma perché? Non è vero, ho capito eccome. Però io… Io ci voglio tornare, babbo, io…».
E il babbo non mi ha risposto più. Cioè, non con la voce, poi però all’ultima curva giù dai monti mi ha guardato e ha indicato là davanti, oltre il parabrezza, dove si è aperto per noi il respiro immenso e luminoso del mare.


La Natura è una forza libera, che ci chiama perché siamo un pezzetto minuscolo ma fondamentale del suo immenso spettacolo. L’unico modo per rispondere è stare zitti, e lasciarci prendere nella sua danza.


Ormai era l’ora di cena, ma in quelle sere di giugno il mondo è così bello che il sole non vuole andarsene e resta in cielo fino a tardi. I turisti invece avevano lasciato la spiaggia, gli ombrelloni chiusi e la riva deserta, diversa, silenziosa. Solo la musica del mare sul bagnasciuga, che si spandeva e tornava indietro, si spandeva e tornava indietro, e io seduto accanto al mio babbo lì dove passavo tutti miei giorni, eppure stasera vedevo il mare per la prima volta.
Perché come gli animali nel bosco, adesso nella pace e nel silenzio i pesci tornavano a brucare nella risacca, e qualcuno saltava fuori dall’acqua per dare un’occhiata alla famosa terraferma, dove i granchi iniziavano ad avventurarsi col loro passo sghembo.
E il babbo, a bassa voce: «Sui monti, sul mare, ma pure per la strada e a casa nostra. Basta stare fermi e zitti, basta che chiudi la bocca e apri gli occhi, ed ecco che la vedi. Perché la Natura è dappertutto, Fabio, la Natura è tutto. E quando smettiamo di fare schifo, la Natura siamo pure noi».

Così mi ha detto, con lo sguardo al mare. Non era uno che parlava molto, non mi aveva mai detto tante cose in una volta sola, e non sarebbe più successo, ma queste parole non le scorderò mai.
Profonde e luminose come il mare lì davanti, che noi passiamo una giornata in spiaggia e crediamo di vederlo e addirittura di conoscerlo, ma sotto la sua pelle scintillante ci sono profondità inesplorate e piene di creature impensabili, prodigi microscopici ed enormi, esseri più piccoli di uno spillo e calamari giganti lunghi come un paio di autobus. Danzano insieme nell’acqua, come nel bosco gli uccelli e gli insetti, le rondini sopra le strade dove ci arrabbiamo nel traffico, le foglie degli alberi lungo i viali dove passiamo con gli occhi bassi al telefono.

È una vita smisurata che da noi non vuole aiuto, non vuole riserve o parchi o oasi recintate, da visitare nel fine settimana per una boccata d’aria e poi di nuovo ad avvelenare il mondo. La Natura non è un animale alla catena, ma una forza libera e smisurata, che ci chiama e ci vuole, perché siamo un pezzetto minuscolo ma fondamentale del suo immenso spettacolo. L’unico modo per rispondere è stare zitti, smettere di fare schifo, e lasciarci prendere nella sua danza.
Com’è successo a me quel giorno di giugno, in cima ai monti e in riva al mare e poi tornando sul furgone, con una felicità addosso che non avevo mai provato così piena: altro che un orfanello senzatetto, la mia casa era il mondo intero, e avevo un babbo che parlava poco ma era un gigante, e sopra di noi e intorno e addosso c’era qualcosa di più grande ancora, che sorrideva a vederci lì, piccoli e armoniosi, a danzare.

Fabio Genovesi, l’autore

Fabio Genovesi, 47 anni, è nato a Forte dei Marmi. Nel 2015 con Chi manda le onde (Mondadori) ha vinto lo Strega Giovani ed è entrato nella cinquina dei finalisti del Premio. Appassionato di ciclismo, si è ispirato a Marco Pantani per il romanzo uscito nel 2020 Cadrò, sognando di volare (sempre Mondadori).