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Michela Cerruti
Deve fare un certo effetto essere definita una delle cinque donne più veloci del mondo. Eppure Michela Cerruti, nata nel 1987, pilota automobilistica fra le più grandi, la prima a vincere in ogni categoria per la quale ha gareggiato (Turismo, Gran Turismo e Formula) e l’unica campionessa a trionfare sulle piste più impegnative del mondo (da Monza, Imola e Mugello fino al Nürburgring), lo fa sembrare una cosa da niente. Guidare per lei è pura felicità. Le difficoltà, per una donna che ha deciso di infilare il casco e sfrecciare a duecento all’ora, sono ben altre. Quelle che toccano a chiunque si trovi ad agire in un ambito tutto o quasi al maschile. «Ho iniziato la carriera di pilota per caso: un corso di guida sicura a ventun anni», ricorda. «Romeo Ferraris, uno straordinario preparatore di auto, mi ha notata e ha insistito con mio padre per farmi provare a scendere in pista per il suo team.» Michela lo fa: scende in pista, senza paura e con una personalità che gli addetti ai lavori notano immediatamente. Da quel momento, non si ferma più. «Ho corso. E ho cominciato a vincere quasi subito. Delle gare mi piace l’adrenalina che si libera, l’urgenza di stare sempre davanti, la necessità di tirare fuori la voglia di lottare». Guidare le ha insegnato tantissimo, dentro ma soprattutto fuori dalle piste. «Mi ha insegnato ad apprezzare la fortuna di poter vivere emozioni irripetibili, sia nella vittoria sia nella sconfitta. Per questa fortuna ringrazio anche tutti coloro che mi hanno accompagnata in questo cammino, specialmente mio padre. E poi ho imparato a essere forte: alla guida della mia macchina ne ho avute tante, persino una rosa, un po’ una sfida, un po’ un portafortuna – mi sono resa conto che avrei potuto contare solo su me stessa. Stare al volante mi ha insegnato a perdere l’abitudine, così femminile, di aspettare conferme dagli altri, di cercare sostegno da fuori, di trovare l’approvazione. Dovevo imparare a bastarmi. E questa sfida l’ho vinta». La sincerità non le fa difetto. Spinge ancora sul pedale, scuotendo i capelli biondi: è una bella ragazza, e nel corso della sua carriera i giornalisti non hanno mai mancato di sottolinearlo, ma di questo non sembra importarle nulla e di certo non l’ha mai considerato un veicolo per acquisire facile popolarità. Anzi. «La gara più dura, per me, non è stata quella in pista ma resistere in un mondo fatto di maschi, farmi accettare per quello che ero, un bravo pilota e non una donna che aveva la fortuna di vincere. È stato faticosissimo, davvero.» Piaccia o no, l’automobilismo è uno sport da uomini. Alle donne, secondo Michela, l’adrenalina viene a noia: «Noi siamo più conservative, più riflessive», ammette. «In pista però non c’è molto tempo per pensare, valutare i pro e i contro, soppesare i rischi: devi buttarti, andare di acceleratore. Cose che ai maschi vengono naturali, loro allacciano il casco e via, si sentono il numero uno senza stare a chiedersi cosa pensino gli altri. Noi no, siamo più ar- ticolate, più complesse, ci facciamo domande, ci poniamo dubbi, quindi diventiamo più lente a decidere… Non a caso siamo molto brave nelle gare di resistenza, dove il calcolo, l’astuzia e la riflessività pagano». Anche nell’automobilismo alcune pareti, pur non cadendo, sembrano essersi fatte più porose e negli ultimi anni, dal suo punto di osservazione privilegiato, Michela ha visto tante ragazze, giovani e in alcuni casi bravissime, avvicinarsi al mondo dei motori. Eppure i problemi restano: «Sono promettenti, piene di talento e di grinta, quanto o a volte più dei loro colleghi maschi. Vanno forte in pista una o due volte, dimostrando che hanno tutti i numeri per diventare campionesse. E poi cominciano a dare risultati altalenanti. Cosa succede? Crescono! Diventano donne, cominciano a pensare come donne. Ma non solo: si accorgono che preparare bene la macchina, affrontare il circuito, sfidare la velocità, non basta. Si rendono conto di dover anche lottare contro gli uomini, l’ostilità, la diffidenza, le critiche, i pregiudizi… E finisce che cedono alla pressione». Lei invece non ha ceduto e oggi essere pilota è diventato fonte di esperienze straordinarie, sempre: si impara dalle vittorie e dalle soddisfazioni in pista, ma anche dalle umiliazioni e dai momenti negativi. «Ne faccio tesoro, sto mettendo a frutto tutto. Perché anche a me, in qualche modo, è capitato di mollare: arrivata a trent’anni, è stato il mio corpo a dirmi che era giunto il momento di fare altro. Ho ascoltato i suoi segnali, in particolare i lancinanti dolori alla schiena, e sono passata dall’altra parte. Lavoro con il team Romeo Ferraris, che elabora e costruisce auto da corsa, con il quale abbiamo messo a punto una vettura straordinaria per il campionato mondiale TCR [riservato alle auto da turismo, modificate per poter sostenere gare in pista], un’Alfa Romeo Giulietta QV TCR, con la quale ho corso lo scorso anno nel Campionato TCR International. Mi occupo anche di tutto quello che segue la preparazione della macchina, come il marketing e la vendita. Collaboro con Sky, sono brand ambassador di Enel per il progetto nel campionato di Formula E: si corre con vetture elettriche veloci e silenziosissime e ha l’obiettivo di raggiungere le emissioni zero e soprattutto il recupero dell’energia minimizzando le fonti di inquinamento. È il futuro dell’automobilistica.» Anche la laurea in psicologia, presa prima di cominciare a gareggiare, le è servita più di quanto immaginasse: «So cosa provano i piloti, uomini o donne non importa, quando vengono trattati come macchine; so lavorare fianco a fianco con i meccanici; so affrontare e tenere testa ai costruttori». Certo, guidare resta la sua passione. «Ogni volta che posso torno a gareggiare. E poi guido anche in vacanza, adoro i lunghi viaggi che permettono di coprire grandi distanze, grandi spazi». Prossimi traguardi? «Vincere la paura del vuoto. Ho già fatto un giro in mongolfiera e una discesa in parapendio. Adesso mi aspetta un volo con il paracadute!»