Storie piccole appena nate e storie di una vita. Incontri di anni prima rimasti congelati e poi riaccesi dal caso. Amori finiti ma mai nel cuore e amori cominciati in sordina. Queste sono alcune delle storie che ci avete mandato in redazione. Qui trovate quelle rielaborate dalla scrittrice Sara Rattaro pubblicate anche sul giornale. Di seguito invece trovate quelle originali, scritte di vostro pugno. Abbiamo creato questo contenitore per voi e per celebrare l’amore di tutti i giorni, raccontato con le vostre parole. Un piccolo omaggio a tutte voi che non smettete di crederci, di desiderarlo e di tenerlo vivo nel tempo. Buona lettura dalla redazione!
Cristina: «Simone e io abitiamo la nostra storia d’amore senza prometterci l’eternità»
Ci sono storie che, quando nascono, occupano molto spazio e fanno rumore; altre, invece, scelgono luoghi nascosti e più silenziosi. Due modi diversi di svelarsi, ma lo stesso rischio, la stessa incoscienza. Perché amare è sempre un’avventura che può portare il cuore a toccare il cielo, o farlo precipitare, pieno di graffi e lividi, sull’asfalto. Quasi sempre gli incontri avvengono in luoghi romantici o in situazioni piacevoli, sotto un cielo stellato o assolato; profumano di fiori o di pane appena sfornato.
Io ho incontrato Simone in un giorno piovoso, nel salone di una stazione piena di confusione e odori spiacevoli. Un inizio capovolto. Avevo fretta e freddo; nessuna attenzione verso il mondo che mi ruotava vorticosamente intorno. Ero così attenta ad ascoltare gli annunci dei treni, a rincorrere gli orari di arrivi e partenze, che non mi sono accorta di lui. Non subito. Eppure era l’unica persona calma, ma soprattutto l’unica assorbita dalla lettura di un libro. Un libro, non uno schermo, pagine di carta. Solo dopo l’annuncio di un Intercity diretto a Milano che rapì la maggior parte delle persone, sono inciampata su quella immagine, innamorandomene all’istante. Mi sono avvicinata a lui per osservarlo meglio e capire se gli avrei permesso, un giorno o in quel momento stesso, di far parte della mia vita. Un’amicizia o un amore, comunque un legame. Quel che scoprii fu una sorpresa, una paura, una felicità, anche un piccolo dolore. Perché quando si ama si soffre sempre un po’. Ci siamo subito scambiati sguardi sorridenti, poi i nomi e, infine, i numeri di telefono. Ci siamo separati seguendo direzioni diverse, con la promessa, felicemente mantenuta, di rivederci. Da allora siamo inseparabili e contrari, ci amiamo e odiamo senza tregua, ci complimentiamo e offendiamo con prudenza; siamo uniti, ma divisibili. Trascorriamo le nostre giornate in autonomia, svolgendo, ognuno attività diverse in luoghi diversi, per poi rincontrarci la sera con l’urgenza di recuperare e aggiustare. Ma il tempo migliore è quello che trascorriamo con la nostra bambina che è risate rumorose, capricci inaspettati, disegni a carboncino, temi pieni di sentimento, videochiamate e videolezioni. Lei è il nostro tutto. Simone ed io abitiamo la nostra storia d’amore senza prometterci l’eternità, come un inizio e non un traguardo, condividendo istanti e strappi di intensa felicità.
Emanuela Froio: «Pensai che non l’avrei più rivisto e invece…»
È una storia vecchia come vecchie sono le rughe che solcano le mie mani…. La penna trema ma i ricordi riemergono insieme alle parole e alle lacrime di commozione per rammemorare quell’incontro. Era il lontano 1956. Nei locali che punteggiavano il Naviglio alla sera si ballava e ci si incontrava. Quella sera indossavo un abito verde svasato disegnato sul mio corpo con una sottile cintura in vita. La musica suonava e la voglia di divertirsi illuminava i volti dei giovani nella sala. Lui appoggiato al muretto vicino al bar mi osservava. I nostri sguardi si intrecciarono insieme ai nostri cuori in una danza a cui ne seguì un’altra e un’altra ancora. Poi dopo quell’incontro il destino misteriosamente ci allontanò e si strappò il mio cuore. Pensai che non lo avrei più rivisto, ma quella sera di Natale al ballo organizzato nella casa di riposo in cui da anni soggiorno, sentì una voce familiare. Era il nuovo ospite appena arrivato. Mi girai e vidi due occhi conosciuti sotto quel caro ciuffo ormai imbiancato: «sei tu? … Sei tu!» «Mi permetti un ballo?» mi disse. «E come non potrei?» risposi. Poi si cancellò tutto, gli anni, i timori, la stanchezza, presi nel vortice di quella danza chiamata amore.
Leila Bizziccari: «Chissà se avrò un amore da festeggiare, scrivevo nel 2020»
Il mio racconto nasce da qui, da una nota sul calendario. Sono una donna tranquilla, serena e felice della sua vita nel bene e nel male. All’età di 30 anni, circa 20 anni fa, sono stata colpita da tumore, e vissuto 20 anni di recidive anche su altri organi. All’epoca avevo un fidanzatino che lasciai per il mio senso di rispetto personale all’inizio dell’avventura curativa. Poi dopo una magica ripresa, dopo 2 anni, ho conosciuto un ragazzo, molto freddo ma affettuoso a modo suo e nei 20 anni passati insieme a distanza, lui vive in Germania, ho avuto modo, grazie a lui di vivere varie esperienze di viaggio oltreoceano che mi hanno distolto, in modo entusiasmante, dagli impegni ospedalieri per curarmi.
Poi dopo i 20 anni arriva la notizia di una insufficienza epatica e l’annuncio di un termine di vita imminente se non fossi riuscita ad arrivare ad un trapianto. Il trapianto grazie a una équipe ineguagliabile è arrivato sul filo del rasoio. È stato un miracolo in scienza, fortuna e coraggio. Mi sono chiesta 1000 volte perché è successo e perché ho avuto il miracolo della seconda vita, forse perché la amo? Forse perché amo la mia famiglia primaria? Forse perché c’ è qualcosa di grande in attesa per me? Prima del trapianto ho avuto la forza ed il coraggio di lasciare il mio compagno, di liberarlo dal fardello che rappresentavo nel bene e nel male passato e sicuramente futuro. Allora poteva essere un amore il mio regalo? A pochi mesi dal trapianto il cancro è tornato sull’organo trapiantato. Un colpo terribile, avevo appena ripreso il contatto con il mio fisico, i miei sogni, i miei programmi nonostante il covid e la chiusura in casa. Ecco, improvviso, un giorno la mamma di una amica che purtroppo non c’è più mi chiama per invitarmi a cena da lei, voleva presentarmi una persona, a me che stavo ancora in chemio e portavo il turbante, me la sarei sentita? Eppure la voglia di vita è emersa con forza, sono andata alla cena, c’era un UOMO, poco più grande di me romano che vive a Bologna, che caso a Bologna, io praticamente vivo a piazza Bologna a Roma. La serata è stata bella, serena divertente, ci siamo scambiati il numero di telefono con la scusa di una visita culturale, poi un invito a cena sulla terrazza di casa sua a Roma. Ho visto la terrazza preparata con le candele, piatti in cromia sul viola, i castelli romani in cornice, mi sono detta “è per me?”. Mi sembrava impossibile, e poi con il passare dei giorni delle telefonate fiume lui si è rivelato un uomo meraviglioso, sensibile, premuroso, educato, ironico, pronto a condividere gioie e dolori perché anche lui ne aveva vissuti tanti. Ci siamo presi in interesse, è stato un crescendo. In una telefonata mi ha nominato il 14 febbraio ed io per curiosità guardo il calendario per vedere che giorno della settimana sarà e ci scorgo un appunto su Google: “Chissà se avrò un Amore da festeggiare, scritto da Leila il 7 maggio 2020”. Eccolo il regalo della mia seconda vita.
Marinella Nicoletti: «Lascio la storia di come si sono conosciuti i nonni per la nipotina in arrivo»
Era il 1979. Più precisamente il 3 febbraio 1979, un sabato pomeriggio, un giorno uggioso ricordo. Io china sui libri di testo a studiare tecnica aziendale e con la prospettiva di dover trascorrere la serata in casa… non avevo impegni. Poi la salvezza: una telefonata dalla cugina più grande: Vieni a ballare con noi stasera? Passiamo a prenderti! E così da lì a qualche ora (a quel tempo le sale da ballo aprivano alle 20.00 -20.30 al massimo) mi ritrovo catapultata in una sala piena di vita, di mille luci, di ragazzi-e e con la mitica musica degli anni 80. Mi aggiro per la sala, guardo ballare, ma sono sola. Poi sento qualcuno che mi dice: ciao, come ti chiami? E cominciamo a parlare del più e del meno, fino a che non mi si secca la gola e chiedo un bicchiere d’acqua che, prontamente e carinamente, questo ragazzo mi va a prendere. Rimango di nuovo sola, giusto un attimo, ma sarà l’attimo che cambierà la mia vita, anche se in quel momento mica lo so.
Mi si avvicina un ragazzo alto, moro, con i capelli lunghi che gli sfiorano le spalle, camicia bianca attillata, così come lo sono i jeans che indossa. Agli occhi miei un APOLLO, io che sono piccolina , minutina minutina e di certo non il tipo che attira tipi così. Ciao sei sola? Sì, sto guardando ballare. E cominciamo a parlare. Il tempo si ferma, non esiste più nessuno, nemmeno il ragazzo che intanto, mi aveva portato da bere. Scusa… sto parlando con lui adesso….Grazie. Mi allontano e lui rimane lì con il bicchiere a mezz’aria. Che ingrata sono stata, ma troppo , troppo interessante quel ragazzo con la camicia bianca. Passammo tutta la sera assieme a parlare, parlare , parlare e , sul finire della serata , il primo bacio. Gli piacevo e lui piaceva a me. Scambio dei numeri di telefono (delle abitazioni, non esistevano mica i cellulari a quel tempo), con la reciproca promessa di risentirci il giorno dopo al telefono. E così fu: da quel momento ogni momento era buono per sentirci, non respiravo se lui non era con me e quando veniva a prendermi a casa ero letteralmente attaccata al cielo con un dito. A giugno di quell’anno io sostenni l’esame di maturità e lui andò militare. Eravamo lontani , ma di quel periodo conservo una cinquantina di lettere, che ci siamo scambiati , e che ovviamente erano il nostro modo di sentirci vicini. Sono stati poi anni splendidi, vitali, vissuti intensamente e sempre assieme.
Ci siamo sposati a giugno di 5 anni dopo quel primo incontro in quella sala di ballo. Sono arrivate due figlie ora grandi, entrambe sposate e stiamo per diventare nonni di una bambina da parte della figlia più grande, che , guarda caso , dovrebbe nascere a giugno. Ci sono stati ovviamente e ci sono ancora momenti di tensione, di discussione e talvolta anche incomprensioni e musi lunghi, però siamo ancora qui e spero di poter continuare ancora a camminare assieme il più a lungo possibile. Almeno quel tanto che mi permetta di raccontare e di far leggere questa breve storia, a quella nipotina in arrivo di come si sono conosciuti i suoi nonni.
Rubino Celeste: «Un giorno così, per gioco, un bacio. Lì il mondo è cambiato»
Ebbene! La mia storia d’amore: forse una storia banale già sentita, ma comunque è ormai l’altra metà del mio cuore. Appena uscita da una storia di dieci lunghi anni che mi aveva distrutta e stancata, avevo solo voglia di vivere e respirare aria di indipendenza, senza troppi problemi, senza troppe paranoie. E poi eccolo, un po’ insicuro ma dagli occhi dolci, non avrei mai detto che un tipo di carattere del genere sarebbe stato bene con la mia esagerata esuberanza. Eppure… siamo partiti come semplici amici, addirittura ci raccontavamo le nostre scappatelle di una notte davanti alla sigaretta. Un giorno così, per gioco, un bacio. Lì il mondo è cambiato, tutto aveva un altro colore, i suoi occhi erano diversi. Milioni di avversità, eppure oggi stiamo insieme da ben otto anni. Prima ero convinta di aver vissuto l’amore, pensiero subito cancellato da lui, la persona con cui oggi divido la sigaretta dopo aver fatto l’amore. Una definizione ? Quello che Platone definiva la perfetta metà della mela. E fra alti e bassi, senza troppi drammi, non potrei essere più felice della mia quotidianità.
Simona Fruzzetti: «Mi gettò tra le braccia di un altro perché in quel momento l’altro era la mia felicità»
Quando mi chiedono: «Come hai capito di essere innamorata di lui?», la risposta spiazza sempre un po’ tutti. «Perché mi ha spinto nelle braccia di un altro». Era il mio preparatore atletico e riuscì a strapparmi un appuntamento extra allenamenti. Io e lui da soli, nonostante sapesse che a me piaceva un altro. Da tempo. Mi venne a prendere a casa in una fresca serata d’autunno e appena salita in macchina gli confidai che mi aveva telefonato l’altro e che ci saremmo visti due sere dopo. Ero talmente euforica di questa occasione che non mi preoccupai di ferirlo. Non fece una piega. Incassò bene, anche se un guizzo della mascella e il fissare per un secondo di troppo il volante, mi suggerì che forse avrei fatto meglio a tacere. Poi si voltò: «Ti piace davvero questo tizio?» «Moltissimo» risposi. «Bene» concluse mettendo in moto. «Perché aspettare, allora». Ingranò la prima e dopo pochi minuti ero dall’altro. Scendemmo di macchina e mi indicò col mento il mio ‘”grande amore”. «Va’ da lui» mi disse incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi all’auto. «Se qualcosa va storto mi trovi qui». Mi stava gettando nelle mani di un altro. Gesto coraggioso. Folle. Rimasi spiazzata. Confusa.
E non solo qualcosa andò storto, andò tutto malissimo. Passi incerti, cuore in tumulto. Mille domande, una sola certezza. In quell’offerta generosa, in quella spinta di libertà, ci vidi tutto quello che volevo. E mi resi conto che volevo lui. Tornai indietro prima di rendermi ulteriormente ridicola. «Portami a casa». Non parlammo, non ce ne fu bisogno. Tempo dopo gli confidai: «Se fossi stata io al tuo posto, se tu avessi preferito un’altra a me al nostro primo appuntamento, ti avrei buttato giù dall’auto in corsa». «Lo so. Ma non si può obbligare qualcuno ad amarti. Io volevo che tu fossi felice, e in quel momento la tua felicità era lui». «Hai rischiato. Ti è andata bene». «So anche questo». «Avrei potuto rimanere là». Sorriso sornione. «Ma non l’hai fatto. Sei tornata da me». Credo che alla fine sia stato il “ritornare sui miei passi'” più bello della mia vita.
Francesca Prina: «Non sono riuscita a superare gli sguardi altrui sul tuo viso sfregiato»
Quando ti ho visto per la prima volta è stato come se un cazzotto mi fosse arrivato dritto allo stomaco. Il tuo viso era un’accozzaglia che sembrava buttata lì a caso da un crudele scherzo della natura; la parte sinistra enorme rispetto alla destra, gli occhi asimmetrici di cui uno semichiuso, la bocca inevitabilmente storta, la pelle di tutta quella parte del viso grinzosa come un frutto avvizzito dal troppo sole. Mi sono vergognata di ciò che provavo, cercavo di non guardarti ma i miei occhi venivano inesorabilmente calamitati su di te intanto che la nostra insegnante cercava di introdurci alle tecniche dell’improvvisazione teatrale. La cosa che mi sorprendeva era che se ti guardavo da un profilo sembravi quasi un uomo normale, seppure non una bellezza, mentre se ti voltavi dall’altra parte o di fronte diventavi inguardabile. Ricordo che quella notte non dormii, la tua immagine mi perseguitava; mi chiedevo che cosa ti potesse essere successo per avere un aspetto tanto orribile, una deformazione pre natale, una malattia dell’infanzia, un incidente di auto o sul lavoro; ma soprattutto mi sconvolgeva il provare a mettermi nei tuoi panni; come mi sarei sentita io al tuo posto? Cosa avrei provato alzandomi ogni mattina e, guardandomi allo specchio, vedere tanta mostruosità? Doversi abituare alle occhiate di curiosità e di ribrezzo delle persone nella vita di tutti i giorni? Lo stesso sguardo curioso e inorridito che avevo avuto io, dopotutto.
Al tempo stesso non vedevo l’ora che arrivasse il martedì, per poterti rivedere, mi sarei sforzata di essere migliore, di guardarti in modo diverso, di nascondere il ribrezzo, di farti sentire uno come noi…uno normale… Mi sforzavo ma senza grandi risultati, ogni volta lo stesso copione, cercavo di guardarti senza rabbrividire ma non ce la facevo; almeno fino alla sera in cui dovemmo fare un esercizio insieme; fino all’ultimo avevo sperato che Anna, nel fare le coppie, non ci abbinasse, ma quando la sentii dire “Stephen sarà con Claudia” il cuore mi diede un tuffo. L’esercizio – ricordo- consisteva nel metterci seduti uno davanti all’altro e, a turno, esplorare con le proprie mani il corpo dell’altro ad occhi chiusi. Proprio quello che ci voleva, pensai, dover toccare quella pelle gonfia e raggrinzita….avrei voluto scappare e abbandonare il corso seduta stante. Poi sentii la tua voce che mi chiamava dietro le mie spalle “Sei pronta Claudia?”; non so ancora spiegarlo, ma quella voce calda agì su di me come una ipnotica carezza che mi portò a sciogliere le tensioni e a cominciare l’esercizio. In un silenzio quasi irreale chiusi gli occhi e cominciai a sfiorare le tue gambe, fasciate dai jeans che portavi,; la tua pelle era calda sotto, guizzante, piena di vita, questo mi diede conforto e quindi salii verso il torace, avevi una camicia di cotone leggero, il petto era sodo, il tuo respiro era regolare e calmo; iniziavo a percepire il tuo profumo, quello che presto avrei imparato a riconoscere, agrumato, fresco e aromatico; poi fu la volta delle braccia, ricoperte da una leggera peluria che si increspò al mio tocco, facendomi avvampare. Non sapevo se potevo, ma soprattutto se volevo, spingermi a toccare il tuo viso, quindi tergiversai ancora sulle braccia, fino a quando le tue mani, con delicata fermezza, presero le mie e le accompagnarono sul tuo viso, che cominciai a toccare, prima con titubanza, poi con sempre maggiore confidenza; sentivo le protuberanze del tuo viso, la pelle quasi accartocciata in certi punti, ma non ne provavo più ripugnanza, percepivo solo il calore che emanavi, la totale fiducia con cui ti esponevi alle carezze di una estranea che, non potevi non essertene accorto, fino ad allora ti aveva guardato come qualcosa di spaventoso.
Da quella sera scoprii che eri un uomo di rara simpatia e intelligenza; la vita ti aveva dotato di uno straordinario senso dell’umorismo con il quale affrontavi a testa alta le cattiverie, gli sguardi curiosi e maligni, le battute feroci: mi accorsi a poco a poco di cercare la tua vicinanza durante il corso, mi sedevo vicino a te, mi piaceva sentire il tuo profumo, ascoltare la tua voce morbida e rotonda come una crema alla nocciola, spesso mi auguravo di poter fare esercizi in coppia con te e quando non succedeva ci restavo male. Anche tu ti eri accorto del cambiamento e mi guardavi con uno sguardo diverso, spesso mi voltavo e vedevo su di me i tuoi occhi, che distoglievi improvvisamente come se il mio sguardo potesse scottarti più delle fiamme che ti avevano devastato il viso quel lontano giorno in cui un petardo scoppiato ti aveva ridotto il viso ad una maschera, nonostante i dolorosi interventi a cui ti eri già sottoposto. Per settimane è andata avanti così, come un fiume in piena ho sentito crescere dentro di me un sentimento spiazzante; da anni ero sola e non mi innamoravo, eppure sapevo ancora riconoscere che quell’inquietudine, quella smania, quel languore nello stomaco avevano una radice comune; mi svegliavo in piena notte, dopo incubi terribili in cui il tuo viso veniva deriso da folle inferocite e disgustate, da cui tentavo di proteggerti ma senza riuscirci. Di giorno il pensiero di te mi faceva compagnia, iniziammo a mandarci messaggi, la tua foto sul profilo di whattsapp era sfrontatamente la TUA faccia; non volevi nasconderti, ingannare nessuno, soprattutto te stesso e per questo ti ammiravo, per questo cominciai ad amarti. Fu naturale quindi una sera uscire per un cinema e, al buio, iniziare a sfiorarci le mani, a stringerle, mi venne naturale appoggiare la mia testa nell’incavo del tuo collo e farmi cullare dal tuo profumo intanto che mi baciavi i capelli con una tenerezza che provò a demolire la diga fino ad allora costruita contro di te. Hai tentato con ogni mezzo di demolire questo muro, te lo riconosco; lo hai fatto con la forza del tuo amore, della tua sconfinata dignità che fa di te un uomo eccezionale, lo hai fatto con la dolcezza di cui trabocchi in ogni gesto e in ogni parola che mi rivolgi, con le tue braccia che mi stringono a te quando sono smarrita, lo hai fatto con la forza della disperazione quando hai cominciato a capire che non ero pronta per tutto questo; non ero pronta a sfidare gli sguardi cattivi, le espressioni di ribrezzo di chi incontravamo per strado o in un ristorante, ogni volta mi vergognavo, avrei solo desiderato fuggire da quegli occhi invadenti, dalla loro falsa pietà, dalla facile compassione che emanavano e al tempo stesso avrei voluto fuggire da me, da quella che in fondo disprezzav . Immenso quale sei, mi hai amato al punto di decidere per me, non hai voluto lasciarmi il fardello di dover ammettere la mia miserabile superficialità e l’incapacità di vedere la bellezza dove davvero esiste, a volte perfino crudelmente nascosta sotto un viso devastato, ma non per questo meno intensa e struggente.
Da un anno non sei più con me, centinaia di volte avrei voluto poterti dire ”sono pronta adesso, sono pronta a sfidare i pregiudizi, ad essere la donna forte e coraggiosa che meriti di avere al tuo fianco”, ma ogni volta ho rinunciato perché ho dovuto ammettere che no, non lo ero e forse mai lo sarò. So che in questi giorni stai affrontando l’ennesimo intervento chirurgico che, tra sofferenze inimmaginabili, affronterai per riguadagnare un altro piccolo pezzetto di quello che eri e che, lo hai sempre saputo, non tornerai ad essere. In ogni caso sempre troppo lontano da quello che si potrebbe definire un viso “normale” ma infinitamente migliore di tanti di noi, me compresa. Io sono tornata alla mia vita di sempre. Alla mia vuota, rassicurante normalità che fa di me la donna insignificante e opaca che solo la tua presenza aveva illuminato di una luce che non ho saputo tenere accesa.
Maria Ceccato: «Ritrovarsi dopo anni per caso e riscoprirsi come un tempo»
È proprio vero che è il caso a indirizzare le persone verso eventi che cambiano felicemente la vita. Sono eventi, di sicuro, desiderati ma se non interviene la dea bendata, il solo agire personale non basta. È così che è successo anche a me, ormai quasi otto anni fa. Il 2 giugno del 2013 arrivavo alla piazzola stabilita per la gita che mi avrebbe portata a biciclettare per Mantova in compagnia del consueto gruppo di amanti della bici con i quali ci si trovava non più di un paio di volte all’anno per destinazioni più o meno lontane. Al mattino, in sella alla bici, nel tragitto per il punto di ritrovo, mi giravano per la testa i leggeri pensieri che accompagnano i momenti di libertà: chissà se il gruppo sarà al completo o mancherà qualcuno, chissà se al gruppo si aggiungerà qualcun altro, magari sarà interessante. E proprio quando ormai ero soltanto a una trentina di metri dal gruppo, ho riconosciuto un caro amico che stava chiacchierando con estrema intesa con un tizio le cui coordinate mi sono sembrate subito quelle di un gran bel tipo.
Fatte le presentazioni, quel gran bel tipo ha cominciato a colorarsi meglio ma non di note positive perché mi appariva molto (troppo) riservato, insomma il tipo bello e presuntuoso. Invece, poi, arrivati a Mantova e riprese le bici, il nostro discorrere ha iniziato fluente e armonioso e così è continuato per tutta la giornata al punto da ricredermi e concludere che non si deve mai giudicare nessuno al primo impatto. Nessuno dei due, tuttavia, ha domandato la cosa più importante (sei libero/libera?) che avrebbe consentito lo scambio dei numeri di telefono e la prosecuzione della giornata ma a ciò ha provveduto, nuovamente, la dea bendata. Un’amica in comune, dopo circa due anni, ha organizzato una pizza e io e quel bel tipo ci siamo ritrovati con lo stesso entusiasmo che abbiamo provato, la prima volta, biciclettando per Mantova e dintorni. E siccome la fortuna l’avevamo già messa parecchio al lavoro, stavolta ci siamo scambiati i numeri di telefono e abbiamo iniziato la storia d’amore che viviamo tuttora.