Un abito verde in una sera d’estate. Una scatola sulla porta. Una domanda sussurrata. Vi avevamo chiesto di raccontarci l’incontro, il momento, il gesto che ancora fanno vibrare il vostro cuore. Ci avete mandato tantissime storie. Ne abbiamo scelte quattro e le abbiamo affidate alla penna della scrittrice Sara Rattaro.

MARIANITA
«NON ASPETTAVO NESSUNO QUANDO IL CAMPANELLO HA SUONATO»

Ti pensavo ogni minuto di ogni ora e nulla sembrava capace di colmare quel vuoto. Era come se la mia vita si fosse fermata a quel giorno, in quell’istante e a quel dolore incolmabile. Il fumo si diradò, la nostra auto rovesciata in un fosso e il tuo corpo senza più espressione accanto a me. A volte, mi sembra ancora di sentire le mie grida. Il resto sono stati giorni tutti uguali, faticosi e impossibili spesso da distinguere. Tutti senza di te. Mi sentivo così vuota che avevo paura di volare via come un palloncino salito così in alto che non riuscirà più a tornare giù. Poi, in una mattina di primavera, come se qualcosa dovesse comunque sbocciare, il campanello di casa ha suonato. Mi sono mossa piano. Non aspettavo nessuno. Sullo zerbino c’era solo un piccolo scrigno. Sono corsa giù dalle scale e l’ho visto. Ci eravamo conosciuti per caso, qualche settimana prima. Il suo sguardo aveva la mia stessa malinconia. È per questo che ho lasciato che si avvicinasse a me. Sembrava una di quelle persone intente a proteggere un vuoto troppo grande da spiegare con una sola parola. Come me.
«È tuo questo?» ho trovato il coraggio di dire. La mia voce tremava.
Lui ha annuito. I suoi occhi brillavano mentre una lacrima gli attraversava il viso. «Mi piacerebbe riempirlo insieme a te. Di cose belle, di sorrisi e risate, di cose da scoprire insieme…» ha risposto.
Ho avvertito l’emozione avvolgermi e diventare concreta come qualcosa che finalmente ti trova dopo averti tanto cercato.
«Non ti posso offrire la spensierata giovinezza, ma un autunno caldo e colorato…» mi ha detto mentre io mi sono mossa verso di lui con il solo desiderio di abbracciarlo. «Voglio prendermi cura di te…» ha sussurrato nel mio orecchio mentre il mio corpo cercava di abituarsi al suo, e improvvisamente quella paura di volare via è svanita.


«L’ho incontrato in un giorno di pioggia, nel salone di una stazione piena di confusione e cattivi odori. Un inizio capovolto, il nostro»
Cristina


EMANUELA
«HO ALLUNGATO LA MIA MANO E LUI L’HA AFFERRATA»

Il regolamento della casa di riposo prevedeva che non ci fossero ricoveri nel mese di dicembre. Quel periodo dell’anno, l’atmosfera che si respirava, l’idea delle vacanze natalizie e i regali da mettere sotto l’albero erano trappole emotive da evitare a coloro ai quali non restava altro che un ballo da organizzare tra gli ospiti del ricovero. Per questo, quando ci informarono dell’arrivo di un nuovo inquilino, eravamo tutti tremendamente curiosi. La direttrice mi aveva incaricata di accoglierlo per spiegargli il regolamento. Era convinta che, se a introdurlo alle nostre abitudini fosse stato uno di noi, l’inserimento sarebbe stato meno traumatico per lui, soprattutto sotto Natale. E poi, io ero preparatissima sugli orari dei pasti, quelli per le uscite in giardino e quelli per accedere alla biblioteca. Avrei scorrazzato il nuovo arrivato in giro per quel microcosmo che ormai, da diversi anni, era diventata casa mia. Così, poco prima di mezzogiorno, mi sono messa un abito pulito e ho legato i capelli ormai bianchi e sono scesa nel salone accanto all’entrata. C’era una donna dall’aria sconsolata che fissava fuori dalla finestra scrollando la testa e un uomo seminascosto dietro al distributore del caffè. L’idea di conoscere qualcuno di nuovo con cui, magari, poter scambiare qualche opinione mi elettrizzava così, davanti al grande specchio in fondo alle scale, mi sono fermata per guardarmi. Ho lisciato la gonna e sistemato una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Mi piaceva l’idea di presentarmi al meglio, di sentirmi in ordine.
Quando il portone si è aperto ho fatto un lungo respiro e mi sono avvicinata.
La sua voce. Quella che avevo appena ascoltato era la sua voce.
Ho avvertito il cuore battere nella parte più profonda del mio ventre.
«Sei tu?» ho sussurrato mentre i suoi occhi mi toglievano ogni dubbio. Tremavo mentre tentavo di avvicinarmi. Tremavo realmente e se mi avesse toccato se ne sarebbe accorto anche lui. Il genere di tremore che hanno gli astronauti quando tornano dallo spazio o gli escursionisti che scendono dall’Everest.
«Oh mio Dio! Quanti anni sono passati?» ha domandato ancora più sorpreso di me.
Era il 1956 e noi solo due ragazzi. I Navigli erano pieni di locali e la sera si ballava. Io indossavo un abito verde svasato disegnato sul mio corpo con una sottile cintura in vita. Il frastuono intorno riempiva l’aria di aspettativa. I ragazzi bevevano, parlavano e corteggiavano le ragazze. I nostri sguardi si incrociarono subito. Lui seduto su un muretto sembrava incapace di guardare altrove. Ricevetti il suo sorriso come un regalo e mi innamorai all’istante. Fu travolgente e inspiegabile. Ballammo finché la musica ce lo concesse.
Un appuntamento per il giorno dopo a cui mi padre non mi permise di andare bruciò tutto. Lo cercai nei mesi successivi. Ero attraversata da un desiderio a senso unico destinato a rimanere incompiuto, impossibile come una sconfitta. Lo avevo perso ma non lo avrei mai dimenticato.
Davanti al bancone della reception della casa di riposo, ho allungato la mia mano tremante e ormai piena di rughe e lui l’ha afferrata. Siamo tornati là, due ragazzi sui Navigli che cercano di dare un nome al turbamento, all’incanto e alla tenerezza che li aveva travolti e che sembrava non avere risentito di tutto il tempo che era trascorso, come solo l’amore può fare.


«Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che era lui quello giusto. Già al primo appuntamento mi sembrava di conoscerlo da sempre, e quando mi ha preso la mano mi sono sentita a casa»
Ylenia


FRANCESCA
«SAPEVA DI LATTE CANDIDO E DI ERBA APPENA TAGLIATA»

L’infermiera mi ha accompagnata fino a una piccola nicchia dietro i distributori. «Aspetta qui» mi ha detto. Non ero autorizzata ad avere tue notizie, lo sapevamo entrambe ma forse anche lei aveva amato qualcuno in modo così disperato da comprendere perché mi trovassi lì dalle prime ore del mattino. Ho fatto un lungo sospiro e mi sono seduta su una sedia. Non avevo intenzione di muovermi.
Il pensiero di te, la prima volta che ti ho visto, mi ha attraversato la mente.
Ci eravamo conosciuti a un corso di recitazione e il tuo volto era stato la prima cosa che avevo notato quando ero entrata nella stanza. Non riuscivo a smettere di osservare la tua pelle bruciata, i solchi delle ustioni che trasformavano metà del tuo viso nella maschera di un mostro. Quando l’insegnante ci chiese di condividere un esercizio, avevo ringraziato che fosse necessario chiudere gli occhi. Avevo paura a toccarti. Nonostante non vedessi niente, l’immagine della tua pelle rovinata sembrava non volermi abbandonare. Poi, allungai una mano e afferrai il tuo braccio. Eri forte ed emanavi un profumo buonissimo. Mi sono avvicinata ancora. Sapevo che da quel momento lo avrei riconosciuto ovunque. Sapevi di latte candido e di erba appena tagliata. Sapevi d’estate. Il suono della tua voce, poi, ha fatto il resto. Era avvolgente e intensa. Nel giro di pochi minuti avvertii la sensazione di voler rimanere lì, a continuare a toccarti, annusarti, ascoltarti. Quella stessa sera, seduti al tavolino di un pub scoprii che eri anche simpatico, ironico e incredibilmente intelligente. Un petardo ti era esploso tra le mani rovinando il tuo viso per sempre. Le operazioni per curarti erano state numerose e sempre dolorose. Quando mi scrivesti per invitarmi a uscire mi ero emozionata e lo rimasi finché non vidi gli sguardi degli altri su di te, e poi su di me. Li capivo. Era questo il mio vero dolore. Chiederti di amarmi dentro le mura di casa sarebbe stato da vigliacchi ma amarti alla luce del sole era troppo difficile per una donna piccola come me.
L’infermiera è ricomparsa. Si è guardata intorno per essere certa che io fossi ancora sola.
«L’intervento è riuscito. Stephen sta bene ma per ora non posso fartelo vedere…».
Mi sono alzata di scatto. Ho avvertito il cuore battere come un martello e un sorriso allargarsi sul mio viso. Sapere che stavi bene, era tutto quello che mi serviva.
«Vuoi che gli dica che sei passata? Come ti chiami?» .
«Non sono nessuno» ho risposto perché è così che mi sentivo. Non avere avuto il coraggio di amarti non meritava nessun altro racconto. Andando verso casa, ho avvertito il freddo entrarmi nelle ossa. Non aveva nulla a che vedere con la temperatura però. Piuttosto sapeva di qualcosa che viene smarrito per sempre.


«Mi innamorai del suo sorriso. me ne accorsi una sera d’estate, prima di uno dei tanti aperitivi: il cuore mi batteva così forte che mi sporcai di vino rosso il vestito bianco»
Giulia


LEILA
«MI HA DETTO: LA VITA È ORA. POI MI HA BACIATA»

Ho la testa fasciata da un turbante. I capelli non ci sono, non le conto più le volte in cui li ho guardati crollare al suolo sotto i colpi della spazzola.
«Dovresti uscirci». La voce dell’amica di mia madre è calda e convincente. La conosco da sempre e non ha mai avuto l’aria di chi si avvicina a me solo per compassione.
«Tu usciresti con una conciata così?» le ho domandato corrugando le sopracciglia.
«Con una donna intelligente, ironica e che non si da mai per vinta? Direi di sì».
«Una malata di cancro. Perché è questo che sono!» ho risposto pensando ai vent’anni di guerra, a tutti i medici che avevo incontrato, agli amori che avevo lasciato andare, al trapianto e alle recidive.
«Mettiti questo» mi ha ordinato allungando un vestito sul letto.
«Io puzzo di medicina! Ti pare che un poveraccio debba essere destinato a tutto questo?».
«È un uomo intelligente… Altrimenti non saremmo qui a discutere. E poi cosa può accadere? Al massimo ti fai un nuovo amico, qualcuno con cui uscire ogni tanto».
Ho sorriso. Aveva ragione. Non avevo niente da perdere ma la verità era che io desideravo un amore, una passione, qualcuno che mi facesse sentire giovane, piena di vita e sana. Qualcuno con cui ballare e fare l’amore per tutta la notte fino a spiare il sole mentre sbuca chissà dove. La voglia di vita ha avuto sempre la meglio ed è stato così anche quella sera. Mi sono infilata quel vestito, ho sistemato il turbante e ho lasciato che l’amica di mamma mi truccasse un po’. Non avevo voglia di pensare a tutto quello a cui avevo già rinunciato, alle notti in bianco, alle reazioni cutanee e alla stanchezza con la quale avevo imparato a convivere. Quello che desideravo era un sorriso, forse un abbraccio, magari delle dita da incastrare alle mie e se fosse arrivato addirittura un bacio, lo avrei onorato come si deve fare quando le cose belle e inaspettate capitano all’improvviso.
La conversazione è scivolata senza intoppi. Abbiamo parlato di me e poi di lui. La voglia di viaggiare, di assaggiare cibi sconosciuti e di lasciarsi inebriare da un bicchiere di buon vino apparteneva a entrambi ma quello che ho amato di più era il suo sguardo su di me. Erano anni che non venivo guardata per quella che ero, semplicemente una donna e non una malata.
Per questo quando a fine serata mi ha invitata a cena a casa sua, ho accettato senza pensarci. Nessuno conosce meglio di me il valore del tempo.
La terrazza era illuminata di candele e la cena preparata con le sue mani. Mi è sembrato di emergere da un bozzolo. Ero emozionata e raggiante, con un grande amore che mi batteva in gola come un colibrì.
«Sei sicuro di tutto questo?» ho avuto la forza di chiedere poco prima che le sue labbra sfiorassero le mie. «La vita è questa ed è ora. Mi spaventa di più rinunciare a provarci che scoprire di essere di nuovo felice».
I veleni che mi venivano somministrati endovena avevano finalmente distrutto la mia malattia. Un uomo, un po’ più grande di me, premuroso e sensibile, una medicina completamente diversa, mi ha riconsegnato la vita.