«Dai bilanci ho sempre rifuggito, sono operazioni masochistiche e inutili: neppure i bilanci degli Stati o delle società funzionano, figuriamoci quelli di un regista». Chissà cosa avrebbe pensato Federico Fellini di tutte le somme che stiamo tirando dall’inizio di questo 2020 in cui ricorre il centenario della sua nascita. Chissà cosa direbbe degli omaggi, delle analisi, dei ricordi. Dei bilanci, appunto. Inaugurati lo scorso 20 gennaio, data esatta dell’anniversario; per proseguire il 20 maggio, 60° compleanno della Palma d’oro al suo capolavoro La dolce vita; e andare avanti fino alla faraonica mostra 1920-2020: Federico Fellini. Un racconto, al Palazzo Reale di Milano nella primavera del 2021.
Fellini ha inventato una nuova poetica
«Il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio» sosteneva. E lì sta il succo della gloria, del peso artistico, della sfida continua al sistema cinematografico italiano. L’esordio in solitaria alla regia, dopo Luci del varietà codiretto con Alberto Lattuada nel 1950 (altro anniversario), è la dimostrazione che, nella Cinecittà bisognosa di una nuova divinità da adorare, lui era il solo pronto a incarnarla. Era il 1952, l’Italia aveva ancora le ferite della guerra e il suo cinema le medaglie del neorealismo.
Con Lo sceicco bianco, Fellini cambia tutto. Quella della coppia che dalla provincia arriva a Roma è una favola romantica in cui la realtà evade da se stessa: la sposina fugge per conoscere il suo idolo, l’attore Fernando Rivoli (un giovanissimo, ma già grandissimo, Alberto Sordi), più noto come “sceicco bianco”. «Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno» confessava l’autore. Ecco il suo tocco, la sua invenzione.
Fellini ha esaltato le donne
L’altra sfida, fin dal principio, è stata alla morale comune. La donna di Fellini era una: Giulietta Masina, moglie fedele ma mai remissiva, nonché musa di capisaldi come La strada (in cui è Gelsomina, timida sordomuta che entra nel circo del bruto Zampanò, interpretato da Anthony Quinn) e Le notti di Cabiria (dove è una candida prostituta alla mercé degli uomini). E le donne di Fellini sono state tutte: Anita Ekberg nella fontana di La dolce vita e Sandra Milo in doppia veste pubblica e privata; Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Valentina Cortese, la Gradisca di Amarcord. Lui era il primo a scherzare su queste icone sospese tra verità e (ancora) sogno: «La più grande unità sociale del Paese è la famiglia. O due famiglie: quella regolare e quella irregolare».
Oggi la polizia del nuovo politicamente corretto metterebbe al bando opere come La città delle donne, uscito 30 anni fa (altro bilancio) e già bersaglio all’epoca: le ossessioni sessuali del protagonista Marcello Mastroianni finivano a processo dopo la cattura da parte delle femministe. Ma le donne, fotografate in tutte le loro forme (letteralmente), erano venerate per la loro forza e indipendenza. Il debole era l’uomo Mastroianni, in cui Fellini ha sempre fatto scomparire se stesso, fino alla mimesi totale: il regista in crisi di 8½. «Marcello è un magnifico attore, ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone»: Fellini parlava di Mastroianni o di sé?
Fellini ha incarnato un simbolo
Un’altra delle sue frasi più famose recita: «Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Cosa intendano gli americani con “felliniano” posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto». Federico “il fregnacciaro” di Oscar per il miglior film straniero ne ha conquistati 4: per La strada, Le notti di Cabiria (in anni consecutivi: 1958 e 1959), e poi per 8½ (1963) e Amarcord (1973). Più uno nel 1993 alla carriera, consegnato dal “suo” Marcello e da Sophia Loren.
Pur senza aver mai lavorato insieme, Federico e Sophia restano gli italiani più celebri e celebrati nella storia di Hollywood. Fino al film che, in quanto a lasciti del regista, segna il loro incontro indiretto sullo schermo: nel musical Nine (2009), ispirato a 8½, Loren è la madre del protagonista Daniel Day-Lewis, a sua volta sintesi di Mastroianni. Più di recente, è sempre sul palco degli Oscar che viene siglato il passaggio di testimone forse definitivo: nel ricevere la statuetta per La grande bellezza (2013), un’ambiziosa Dolce vita del nostro tempo, Paolo Sorrentino cita, tra i suoi numi ispiratori, proprio Fellini.
Fellini ha raccontato l’umanità struggente degli italiani
«Ci sono pochi registi che hanno completamente cambiato il modo in cui sperimentiamo questa forma d’arte. Fellini è uno di loro» confessa invece Martin Scorsese. «Non basta chiamarlo regista, era un maestro». Fellini il dio di un nuovo modo di fare cinema, delle donne, della quintessenza dell’italianità spiegata agli stranieri e al contempo svelata ai connazionali.
E delle geografie reali riplasmate dalla fantasia. Dal sogno. Oggi la Romagna riprende il suo posto “pop” nella mappa cine-seriale (vedi i recenti Summertime e Sotto il sole di Riccione), ma quella ritratta da Fellini rimane lo specchio di tutto il Paese, dell’eterna provincia nostrana con la sua umanità malinconica e struggente.
La sua Rimini è il punto di partenza (il capolavoro I vitelloni del 1953, sempre con Alberto Sordi) e l’approdo (il “memoir” Amarcord, la più personale delle sue opere). «Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto» diceva il nonno di Amarcord. Non era nessun posto, ed era insieme un posto precisissimo: era il cinema di Fellini, e basta.