C’è Growbot, il robot ispirato all’edera che si attacca e cresce ovunque: si può usare per guidare telecamere e sensori in luoghi altrimenti impossibili da raggiungere, per esempio scavi archeologici o cunicoli in cui cercare fughe di gas durante un terremoto. E c’è la retina liquida, una protesi artificiale acquosa e iniettabile in cui sono sospese particelle reattive alla luce che sostituiscono quelle danneggiate nell’occhio. Sono solo 2 degli esempi più recenti di eccellenze hi-tech che parlano italiano. Ligure, per la precisione. Sì, perché il viaggio attraverso il Made in Italy del futuro capace di competere a livello mondiale parte dall’Istituto italiano di tecnologia che ha sede a Genova: qui si portano avanti centinaia di progetti con team internazionali nei settori della robotica, dei nanomateriali, delle scienze computazionali e delle biotecnologie.
«La ricerca in questi campi viaggia ad alta velocità ed eccelle da sempre, ma soltanto negli ultimi anni i laboratori hanno iniziato a lavorare con le aziende» spiega Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto. Succede nei “distretti dell’innovazione” dove, sul modello della Silicon Valley californiana, le imprese all’avanguardia si aggregano a start up, università e investitori per condividere il know-how. «E per mettere in atto il trasferimento tecnologico, cioè il passaggio delle conoscenze dalla ricerca al mercato» continua Metta. «Chi studia e sperimenta il futuro deve incontrare gli imprenditori, trovare i fondi e tradurre studi e prototipi in prodotti. È ciò che serve al Made in Italy per essere protagonista in tutto il mondo anche in ambito hi-tech».
Siamo leader nella robotica e nell’automazione industriale
Uno di questi punti d’incontro è il neonato JOiiNT Lab Robotic Intelligence League Bergamo, promosso da Confindustria con il coinvolgimento di aziende come ABB e Brembo per studiare progetti di intelligenza artificiale. Per esempio, il controllo da remoto degli impianti industriali, in modo che nel caso di una nuova emergenza sanitaria paragonabile al Covid non si blocchino le attività produttive. L’innovativo laboratorio di robotica e meccatronica, per il quale si prevede un investimento di 5,2 milioni di euro, si trova nel Kilometro rosso di Bergamo, un campus di 400.000 metri quadri con 1.700 addetti e ricercatori, 60 aziende insediate e 28 laboratori di ricerca. È la culla di scoperte come il cemento che non invecchia, lanciato da Innovacrete e già utilizzato per ponti e viadotti in Australia, in Qatar e a Dubai: grazie a una reazione chimica brevettata, è più resistente ma leggero di quello tradizionale. Dalla Lombardia alla Toscana, patria dei 2 fiori all’occhiello dell’hi-tech italiano: la robotica e l’automazione industriale (l’insieme di tecnologie meccaniche e informatiche che rendono automatica la produzione). Un settore nel quale vantiamo un tasso di crescita del 19%: più alto del Giappone, il doppio della Germania e il triplo degli Stati Uniti, secondo i dati della Federazione robotica internazionale.
Il cuore pulsante è l’Istituto di biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, il centro più avanzato a livello internazionale per la robotica soft, quella che fa uso di materiali morbidi e sensibili. Qui è nato Octopus, il robot-polpo capace di muoversi in condizioni estreme e modificare la propria forma a seconda degli spazi. Lo ha inventato Cecilia Laschi, una delle 25 donne geniali nella classifica “Women in Robotics” insieme a Barbara Mazzolai dell’Istituto italiano di tecnologia, coordinatrice del progetto Growbot. La sperimentazione di Octopus è agli inizi ma le possibilità di impiego sono tante, dalla pulizia degli oceani alle operazioni di microchirurgia. La scuola genera aziende spin-off come Iuvo, che con la torinese Comau ha dato vita al progetto dell’esoscheletro Mate, la prima di una serie di tecnologie robotiche indossabili già usata nelle industrie di tutto il mondo: è una sorta di busto che segue i movimenti degli arti superiori riducendo la fatica dei muscoli di spalle e braccia del 30% e facilitando così il sollevamento dei pesi o la ripetitività dei gesti. «Nella robotica e nell’automazione industriale siamo primi a livello internazionale, grazie alla nostra tradizione manifatturiera nel campo di automobili ed elettrodomestici» sottolinea Metta. «Sappiamo fare macchine. Anche molto evolute, come i robot collaborativi, quei bracci meccanici che lavorano nella catena di montaggio saldando o avvitando pezzi. L’industria italiana ha un’esperienza consolidata: bisogna mantenere il primato e sfruttare il vantaggio competitivo».
Sta crescendo il “triangolo” dell’informatica
Spostandosi a Sud cambia l’ambito di eccellenza. In Puglia fiorisce da un decennio una delle più promettenti e produttive Silicon Valley nostrane: il settore trainante è l’IT, perché negli anni ’60 proprio all’università di Bari è nata la seconda facoltà di Informatica in Italia grazie all’interesse di un gruppo di studenti e imprenditori. Un interesse che ha creato il sostrato e le competenze perché oggi, nel triangolo tra Bari, Foggia e Gravina, prosperino tante aziende riunite nel distretto dell’informatica favorite dalla forte digitalizzazione del territorio. Qualche nome? Ex privia Italtel, player globale per la progettazione e lo sviluppo di tecnologie per il settore bancario, medico e industriale, e Macnil, un vivaio digitale per microimprese e pmi del software. «Sono pugliesi start up di fama mondiale come Roboze: ha innovato la stampa 3D dei super materiali come polimeri e fibra di carbonio, che l’esercito americano usa per stampare al momento pezzi di ricambio dei mezzi militari anziché stoccarli in magazzino.
O Zakeke, che ha ideato programmi di configurazione 2D e 3D per personalizzare fin nei minimi dettagli i prodotti venduti online, dalle stanghette degli occhiali alle tazze» spiega Angelo Coletta, presidente di Italia Startup, l’associazione che rappresenta l’ecosistema italiano dell’innovazione. È pugliese anche Hevolus, specializzata nell’utilizzo della realtà virtuale per aumentare le capacità cognitive: ha inventato per Natuzzi, azienda di arredamento, un sistema per simulare la collocazione del nuovo divano nel salotto. E così si è fatta notare da Microsoft e ne è diventata partner ufficiale per i programmi di sviluppo della “mixed reality”, allo scopo di creare ambienti in un cui oggetti fisici e digitali interagiscono tra di loro in tempo reale. Dando così la possibilità, con i visori virtuali, di guardare e toccare una borsa o un paio di scarpe.
La filosofia vincente si chiama open innovation.
Sono tutte realtà che hanno avuto la forza e la fortuna di incontrare imprenditori illuminati. «Quelli che oggi sono pronti a sposare l’open innovation: non più ricerca e sviluppo che solo poche grandi realtà industriali possono permettersi, ma caccia alle start up con tecnologie già pronte da industrializzare» spiega Valentina Sorgato, a.d. di Smau, realtà che propone in tutta Italia occasioni di incontro tra imprese consolidate e aziende innovative per favorire le partnership e che porta le start up italiane nelle vetrine europee. «Le nuove start up nascono con un’ottica già internazionale e per questo hanno molte più capacità per competere. Prima non era così, e questo le condannava ad arrivare tardi sui mercati mondiali. È un cambiamento culturale importante che va adesso accompagnato dagli investimenti giusti». Investimenti è la parola chiave per il volano hi-tech. La logica dei distretti tecnologici è proprio quello di attirarli, mostrando alle aziende le potenzialità reali della ricerca. «In Cina investe lo Stato, in Nord America i grandi privati come Google e Amazon, qui invece scontiamo ancora un grosso gap» afferma Coletta. «Ma adesso qualcosa si sta muovendo: con il nuovo “pacchetto innovazione” del ministero dell’Economia arriveranno capitali diretti a finanziare le start up hi-tech e fondi ad hoc per il venture capital, cioè per l’apporto dei capitali in imprese rischiose. Se pensiamo che nella Silicon Valley l’anno scorso sono stati investiti 40 miliardi di dollari e in Italia meno di 1, si capisce come le potenze di fuoco siano diverse. A parità di talento e creatività, vince l’azienda che può investire di più». Altro gap italiano è la difficoltà di trovare manager dell’innovazione. «Le grandi aziende qui se li tengono stretti, mentre nel mondo anglosassone danno loro la possibilità di lavorare per un periodo nelle start up senza perdere il posto di lavoro, per portare expertise e tornare con nuove idee ed energie fresche». Un limite che nelle nostre Silicon Valley si cerca adesso di superare.
I numeri dell’high tech italiano
- 104.000 le imprese italiane che operano nella robotica
- 10% l’aumento del numero di queste aziende in 5 anni
- 429.000 il totale degli addetti impiegati nel settore
(Fonte: 100 Italian robotics and automation stories, quarto rapporto sull’innovazione Made in Italy realizzato da Enel e Fondazione Symbola con Ucimu)
Dove sono gli “Hub” dell’eccellenza
Gli hub dell’hi-tech sono circa 30 in Italia. Ecco alcune eccellenze.
● ComoNExT, nella zona di Como, ha circa 40 start up in un’area
di circa 21.000 metri quadri. Le aree di sviluppo: big data, Internet of things (l’interazione tra computer e oggetti reali tramite sensori), nuovi materiali, robotica, nanotecnologia.
● GREAT Campus a Genova ospita nei suoi 400.000 metri quadrati il Center for human technologies dell’Istituto italiano di tecnologia, specializzato nella ricerca su tecnologie per la salute umana, nella riabilitazione e nell’interazione uomo-macchina.
● Polo Meccatronica di Rovereto (Tn) comprende startup, aziende e laboratori come il futuristico Prom Facility, dove si fa prototipazione meccatronica con stampanti 3D e frese a controllo numerico: sono macchinari evoluti capaci di stampare in pochi minuti oggetti e modellarli come fossero realizzati da un artigiano o da una catena di montaggio.
● Il Tecnopolo di Roma comprende 2 parchi tecnologici distinti: il Tiburtino lavora su telecomunicazioni, elettronica, aerospazio e green economy; il Castel Romano è focalizzato sull’interazione fra ricerca e impresa nei nuovi materiali e nel manifatturiero avanzato.
● Nel Parco scientifico e tecnologico della Sardegna, tra Cagliari, Oristano e Alghero, si svolgono attività di ricerca e formazione nel settore ICT ed energia. Ci sono un laboratorio di prototipazione rapida (tecniche innovative per creare velocemente prototipi di prodotti) e uno di biomedicina di livello europeo.