Un trillo su WhatsApp, un numero che non riconosco. «Ciao. Sono Francesca. Ci mettiamo d’accordo per l’intervista?». Francesca Bria è spontanea e diretta, come il “tu” che usa fin dall’inizio. Al di là delle formalità, oltre i ruoli. Che, nel suo caso, sono tanti e prestigiosi: docente all’Institute for Innovation della University College London, advisor della Commissione europea sull’innovazione e dell’Onu sui diritti digitali, dal 2015 al 2019 assessore alle Politiche digitali di Barcellona e, da gennaio, presidente del Fondo Innovazione Nazionale. A chi, se non a lei, chiedere di raccontare le parole che sentiamo pronunciare più spesso quando si parla di futuro: innovazione e digitale.
«L’innovazione nasce quando l’immaginazione incontra l’azione» dice Alec Ross, ex consulente di Barack Obama. Affascinante, ma rischia di apparire astratto…
«Invece non c’è nulla di più concreto: l’innovazione è la capacità di cogliere le opportunità offerte da scienza e tecnologia per migliorare l’esistenza delle persone. Perciò è connessa al digitale, la base della quarta rivoluzione industriale che sta già cambiando società, economia, politica. Lo abbiamo sperimentato nel lockdown: dallo smart working alla didattica a distanza, dalle app di food delivery ai film in streaming, abbiamo vissuto una digitalizzazione repentina delle nostre abitudini. Web, Intelligenza artificiale e Big Data sono le infrastrutture per costruire il futuro».
Ma evocano scenari alla Grande Fratello di Orwell. Penso anche al dibattito sulla privacy e le app di tracciamento dei contagi
«La Rete è uno straordinario mezzo di condivisione delle conoscenze, ma può generare nuovi monopoli di potere. Questa è la sfida: conciliare tecnologia e democrazia. Oggi abbiamo due modelli. Uno è quello della Cina, il Big State che controlla dall’alto la popolazione: può essere efficace in termini di sicurezza, ma limita la libertà. L’altro è quello della Silicon Valley, il Big Tech incarnato dai giganti come Facebook e Amazon che usano le informazioni personali a fini commerciali: ci semplificano la vita, ma invadono la privacy. Io propongo una terza via: la Big Democracy. Fatta di una partecipazione consapevole dei cittadini e di una tecnologia al servizio della società. Mi ha ispirato Stefano Rodotà, tra i primi a parlare di nuovi diritti digitali».
L’hai messa in pratica, questa terza via, da assessore a Barcellona
«Sulla piattaforma online Decidim Barcelona 400.000 abitanti hanno inviato proposte per lo sviluppo della città. E dalle loro idee è nato il 70% delle politiche della sindaca Ada Colau. Il tema più sentito era l’ambiente e il più grande progetto realizzato si chiama Superillas: interi distretti chiusi al traffico; piste ciclabili triplicate; edifici pubblici alimentati a energia solare. È stato un esperimento riuscito di democrazia digitale».
E un esempio di smart city. A questo proposito: oggi tutto deve essere intelligente, dall’auto al lavoro alle città… Non rischiamo il “soluzionismo tecnologico”?
«Sì. Con mio marito, il sociologo Evgeny Morozov, ho scritto nel 2018 il libro Ripensare la smart city proprio per smitizzare questa parola. Discutiamo insieme le questioni più teoriche, poi io passo alla sperimentazione tecno-politica. Il mio lavoro sui dati come bene comune (vedi box, ndr) nasce anche da sue intuizioni. Condividiamo una visione: la tecnologia da sola non salverà il mondo, può aiutarci a risolvere problemi concreti solo se è messa al servizio delle persone e indirizzata verso le grandi sfide di oggi, in primis il cambiamento climatico e la giustizia sociale».
Il mio obiettivo? Rendere l’Italia un Paese digitale, verde e femminista
Il digitale è tra i pilastri delle Linee guida del governo per usare i finanziamenti del Recovery Fund. Cosa farà il Fondo Innovazione?
«Abbiamo oltre 1 miliardo da investire per creare 1.000 imprese innovative, acceleratori e poli di trasferimento tecnologico in settori strategici: dall’energia all’agricoltura, alla space economy. L’obiettivo per il futuro dell’Italia è accelerare la digitalizzazione, ma in una direzione precisa: il “green deal”, ovvero diventare un Paese a emissioni zero entro 2050. Il primo passo è portare la fibra ottica in tutto il territorio per iniziare a colmare le fratture tra Nord e Sud, metropoli e borghi spopolati. Rem Koolhaas, uno dei miei architetti preferiti, parla di smart countryside come base per un futuro ambientale e sociale sostenibile».
Il magazine The Atlantic ha scritto che, tra lavoro perso e carico familiare aumentato, la pandemia ha riportato le donne indietro agli anni ’50. Come recuperare?
«Il Covid ha evidenziato le storture sociali, e il gender gap è una di queste. La rivoluzione digitale deve essere anche una rivoluzione femminista: se vogliamo costruire il futuro, non possiamo lasciare indietro la metà della popolazione. Occorre partire dall’educazione, fin dalla scuola primaria. Non parlo di corsi di coding, sarebbe riduttivo. La tecnologia è un nuovo alfabeto che va integrato con le materie umanistiche, passando dalle Stem alle Steam: scienza, tecnologia, ingegneria, matematica e, in più, arte. Per comprendere la complessità della trasformazione epocale che stiamo vivendo con un filtro creativo».
Accosti spesso “tecnologia” a “persone”
«Perché credo in un umanesimo digitale in cui la tecnologia non è un privilegio per pochi, ma un diritto di tutti. Un bene al servizio, e nell’interesse, dei cittadini. Per costruire il futuro dopo la pandemia».
Francesca Bria, la “Robin Hood” dei dati
Fra i progetti di cui Francesca Bria, 40 anni, va più fiera c’è Decode: una piattaforma tecnologica che permette ai cittadini di decidere quali dati personali condividere e con chi, togliendone di fatto il controllo alle aziende. Perciò il Financial Times l’ha definita “la Robin Hood dei dati”. «Sono un bene pubblico al pari di aria e acqua, vanno trattati come tali» dice Bria, che di dati, digitale e democrazia parla al Festival della Filosofia il 19 settembre.