Ha da poco festeggiato i 65 anni nel suo nuovo ufficio, in un ruolo che nessuna finora era mai arrivata a occupare: il giudice Margherita Cassano, nata a Firenze ma lucana d’origine, è la prima donna presidente aggiunto della Corte di Cassazione, cioè al vertice della magistratura.
La sua designazione arriva dopo quella di Marta Cartabia a presidente della Corte Costituzionale e di Gabriella Palmieri a capo dell’Avvocatura dello Stato: la conferma di un trend o un’eccezione?
«Oggi le vincitrici del concorso si aggirano tra il 58 e il 61%, ma ricordiamo che solo nel 1963 venne dichiarata incostituzionale la norma che escludeva le donne dall’accesso alla magistratura (le prime entrarono in servizio nel 1965, ndr). Ora sono tante nelle fasce giovani, la loro presenza è invece più rarefatta, ma in crescita, ai livelli più alti. Certo è che solo grazie alla pluralità dei punti di vista, delle esperienze e delle sensibilità culturali le istituzioni possono funzionare al meglio».
Le donne, però, spesso faticano ancora a vedere riconosciuti i loro diritti
«Il tema è culturale, coinvolge l’intera società e parte dall’educazione, in famiglia e in classe: deve essere diffusa la consapevolezza che ogni persona rappresenta un valore in sé e che la diversità fra le persone è un fattore di arricchimento. Durante le lezioni di educazione alla legalità che ho svolto nelle scuole, ho cercato di trasmettere ai ragazzi il senso più profondo del rispetto reciproco e il rifiuto di modelli di violenza e di aggressività».
Lei ha ricoperto incarichi prestigiosi in varie sedi, ma mantiene relazioni strette con la Lucania. E un dipinto che raffigura San Mauro Forte, il paese di suo padre, la segue nei vari uffici. L’ha portato in Cassazione?
«Sì, il quadro è qui a sottolineare il mio legame con la Basilicata, una delle regioni più povere d’Italia, dove è forte l’orgoglio nella popolazione per il progresso compiuto in un tempo breve. Resto legata alla mia terra anche perché là c’è ancora un senso solido dell’amicizia e dell’accoglienza dell’ospite che deriva dall’antica tradizione greca».
Il giudice è sempre più spesso destinatario di domande di giustizia non ancora regolamentate dalla legge ordinaria. Penso alle delicate questioni sul fine vita
Con la sua esperienza di 40 anni in magistratura, quali ritiene siano le sfide oggi per un giudice?
«Sono molteplici. L’interpretazione delle norme è diventata più complessa a causa del moltiplicarsi delle fonti sia nazionali sia sovranazionali che devono trovare applicazione. Inoltre, il giudice è destinatario con sempre maggiore frequenza di domande di giustizia non ancora regolamentate dalla legge ordinaria. Rispetto a queste, deve ricostruire con rigore i principi sanciti dalla Costituzione o dalle fonti sovranazionali che soli consentono la sua decisione. Penso, fra tutti, ai casi Welby, Englaro e alle complesse e delicate problematiche in tema di fine vita. Infine, al giudice è richiesto un impegno sempre maggiore in tema di motivazione dei provvedimenti, il cui contenuto deve essere intellegibile e chiaro non solo da parte dei tecnici, ma anche da parte dei cittadini in nome dei quale amministriamo la giustizia».
Oltre ai rallentamenti dovuti alla pandemia, i cittadini sono esasperati dalla lentezza della giustizia
«Ogni magistrato deve adottare le migliori prassi organizzative per elaborare una risposta che sia celere e allo stesso tempo meditata. Sono però convinta che la questione relativa alla durata dei processi sia recepita in modo più drammatico dai cittadini rispetto al dato reale. Il grande sforzo culturale per tutti i giuristi è quello di offrire risposta alle domande di giustizia in forma alternativa al processo tradizionalmente concluso dalla sentenza. Penso in particolare alle potenzialità insite nella mediazione, che è oggi una delle frontiere del diritto. Quando sono stata presidente della Corte d’Appello di Firenze (dal gennaio 2016 a luglio di quest’anno, ndr) abbiamo conseguito risultati molto interessanti grazie a questo istituto, che consente di riannodare i fili di un dialogo spesso drammaticamente interrotto e di trovare, in tempi più rapidi, un ragionevole punto di equilibrio tra le diverse istanze, con positive ricadute economiche e sociali».
Il suo lavoro l’ha portata a occuparsi di tossicodipendenze, violenze gravi, omicidi, e anche alla Direzione distrettuale antimafia…
«Penso sia uno dei lavori più belli che possa capitare di svolgere, anche per le prospettive umane che apre: mette a contatto con un’umanità dolente e richiede un atteggiamento di empatia verso l’altro. Le nuove generazioni devono sapere che, se si sceglie di sostenere il concorso in magistratura e lo si supera, occorre dedicarsi a questa professione con curiosità intellettuale, entusiasmo, totale dedizione, umiltà, rispetto dell’altro, consapevolezza della grande responsabilità insita in questo lavoro. Ho cercato di impegnarmi al massimo e sono contenta di averlo fatto. Mi ritengo una persona privilegiata, perché continuo quotidianamente a imparare».