È cresciuto nell’alta borghesia francese, eppure Vincent Lindon dà spesso volto alle persone più semplici. E quando gli chiedo se c’è un motivo, con il timore di aver fatto una domanda un po’ assurda, la sua risposta è sorprendente. Per capirla meglio bisogna sapere qualcosa sulla famiglia del 65enne protagonista di film a sfondo sociale come Welcome di Philippe Lioret (2009) o La legge del mercato di Stéphane Brizé (2015), per il quale ha vinto un César e il premio di miglior attore al Festival di Cannes.

È figlio di un industriale e una giornalista nel cuore chic di Parigi, che si sono separati quando lui aveva 5 anni. Il nonno paterno era un magistrato della Corte di Cassazione. Il bisnonno, gioielliere e collezionista d’arte originario di Cracovia, era sposato con la sorella di André Citroën, patron della nota azienda automobilistica.

Forse non è un caso che tra gli amori dell’attore, negli anni ’90, ci sia stata Caroline di Monaco.

Vincent Lindon in Noi e loro

Tornando alla domanda un po’ assurda… «Mi psicanalizzo da solo e mi piace raccontarmela così. Mio padre era un uomo molto pratico, che amava i lavori manuali, ed era molto snobbato per questo. Era considerato quasi una pecora nera nel suo ambiente. In un certo senso, ho trovato il modo per vendicarlo: mi piace finire sui giornali più prestigiosi e snob della Francia, quelli letti dalla mia famiglia, con film e storie di gente umile. Ha senso? Per me ce l’ha».

Nel suo nuovo film, Noi e loro di Delphine e Muriel Coulin, al cinema dal 27 febbraio, Lindon è un operaio 50enne che cresce da solo due figli. Mentre il maggiore sta per andare all’università, il minore si avvicina agli ambienti violenti dell’estrema destra, cosa che lacera profondamente il padre: come può un figlio essere così lontano dai tuoi valori e pensieri? Tratto dal romanzo Quel che serve di notte di Laurent Petitmangin (pubblicato in Italia da Mondadori), il film fa riflettere sulla sottile linea rossa tra le responsabilità educative di un genitore e le scelte filiali.

Per la sua interpretazione Lindon ha vinto la Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove Noi e loro – titolo originale Jouer avec le feu – è stato presentato in anteprima.

Vincent Lindon in una scena del film “Noi e loro”

Una storia di grande attualità, vista la crescita dei movimenti neofascisti in Europa. È uno dei motivi che l’hanno spinta ad accettare questo ruolo?

«Difficile rispondere, forse non è quello che mi spinge. A volte i film hanno un buon tempismo rispetto a ciò che succede e altre no, ma io scelgo i ruoli istintivamente, se ci ragionassi troppo non saprei mai qual è la cosa giusta e soprattutto non sarei naturale nella recitazione. Perché poi, quando recito, sono come un animale».

Come entra nel personaggio Vincent Lindon

Addirittura?

«Sì, perché parto dalle sensazioni fisiche, dagli odori, dalle percezioni dell’ambiente intorno. Mi sento vicino a Pierre, il protagonista, ma non penso alla sua storia, perché per interpretarlo il movimento ha molta più importanza della parola. Cerco di capire in che modo si veste o beve o mangia. Tanto che posso anche pensare ai fatti miei, mentre recito, ed è proprio quello che mi piace di questo mestiere: lo sdoppiamento per cui da un lato credi a quello che stai facendo e dall’altro lo guardi da fuori. Posso fingere di essere superinteressato a quello che dice lei senza neppure ascoltarla, è il mio mestiere».

Avrà fatto una riflessione sui pensieri di questo padre, vista l’empatia che suscita negli spettatori?

«Direi che ci sono due aspetti. La storia personale dell’uomo rimasto senza moglie, che si chiede cosa ha sbagliato con i figli, e la storia politica. Io mi sono concentrato sulla prima. Quest’uomo si sente in colpa perché gli è sfuggito qualcosa, perché “esserci” significa essere presente quotidianamente e lui si rende conto che avrebbe dovuto capire le cose prima. Sa che quel ragazzo può rovinarsi la vita in un attimo. Mi fa venire in mente ciò che succede, anche in amore, quando siamo poco presenti. Quante volte una persona che viene lasciata dice all’altro: “Resta con me e vedrai che cambierò”. Troppo tardi: bisogna avere cura prima che succeda il peggio».

Vincent Lindon e l’impegno sociale

Il lato politico le interessa, facendo questo mestiere?

«Spero di svegliare le coscienze attraverso i miei film. Mio padre diceva sempre: “Se non puoi aiutare almeno una persona nella vita, il tuo passaggio sulla Terra non ha senso”. È una frase che mi colpì molto e l’ho fatta mia. Il mio impegno è scegliere storie che hanno un valore umano e sociale».

Anche lei è padre (di Marcel e Suzanne, 28 e 25 anni, avuti con l’attrice e cantante Sandrine Kiberlain, dalla quale si è separato nel 2004, ndr). Cosa significa essere un buon genitore?

«Facciamo tutti cento errori al giorno ma, secondo me, la differenza tra un buon padre e uno cattivo è farne il meno possibile. È impossibile non sbagliare, a cominciare dalle piccole cose alle quali magari non dai importanza. Il figlio minore vuole una certa T-shirt e gli dici di usare quella che il fratello non mette più? Lo fai due o tre volte e magari lui si sente svalutato rispetto al maggiore…».

Il giovane cast di Noi e loro

Com’è stato lavorare sul set con Benjamin Voisin e Stefan Crepon, che interpretano i suoi figli?

«Molto bello. Sono ragazzi seri e bravi, capaci di essere così reali in scena. Abbiamo chiacchierato e sognato insieme dopo il lavoro, a volte mi guardavano come io guardavo Alain Delon. La sera loro andavano a divertirsi e io crollavo: è il solo momento in cui li ho odiati, perché mi mostravano sfacciatamente quello che ero anch’io alla loro età».

E cioè, com’era?

«Matto, mi piaceva andare alle feste, eccome. Ora invece… A Venezia, dove abbiamo presentato il film, dopo cena dicevo ai ragazzi: “Passo in camera e vi raggiungo”. Poi mi schiantavo e non uscivo più».

Di Alain Delon cosa ricorda?

«Ho girato con lui due film, in piccoli ruoli, da giovanissimo: Notre histoire nel 1984 e Ventiduesima vittima… nessun testimone nel 1985. Non capivo perché si interessasse a me, mi pareva un sogno. Mi piacciono i tipi ombrosi, che soffrono. I troppo felici mi annoiano. Mi affascinano quelli difficili da conquistare e lui lo era, non apprezzava tutti».

Il rapporto con i social

Come vive le attenzioni mediatiche e i social network?

«Me ne frego, soprattutto dei social. Che senso ha mostrare quello che mangi o quant’è bello il tuo gatto? Ho visto una coppia a colazione, in albergo, uno dei due fotografava i piatti e neanche parlava all’altro. Sono sincero, non mi importa neppure di qualsiasi post in cui parlano di me, anche fossero lodi sperticate. Questo è il mio modo di stare al mondo».

Non le importa neppure di vincere premi?

«Quelli sono riconoscimenti seri: ne sono felice e fiero, per me e per chi mi sta vicino. Ma troverei volgare farmi un vanto sui social della vita che ho: non voglio far sentire gli altri da meno».