Come mai ci ritroviamo intrappolati in relazioni impari che ci tolgono il fato e la felicità? Perché i rapporti che umiliano e feriscono sono quelli che più fatichiamo a lasciarci alle spalle? Condividendo in un libro – Perché ho così bisogno di te. Quando amare fa troppo male (Vallardi) – la sua esperienza decennale sul campo di battaglia delle relazioni, Mattia Cis, psicoterapeuta specializzato in traumi affettivi, fornisce strumenti e vie d’uscita. Spiega quanto la violenza di genere sia responsabilità degli uomini e quanto sia cruciale, soprattutto per le donne, far luce sui meccanismi che ci spingono nel baratro delle dipendenze affettive disfunzionali e perché «ci attacchiamo a queste ultime, anche quando sono tossiche e violente, come se fosse una questione di sopravvivenza».

L’intervista a Mattia Cis

Mattia Cis – PH Alek Pierre

Nel libro impiega un esempio illuminante per spiegarlo.

«Negli anni ’50, a un piccolo macaco in gabbia furono proposte due finte madri. Una era un pupazzo morbido e caldo, l’altra era di metallo ma dispensava cibo. Ciò che accadde sconvolse gli scienziati e segnò una tappa fondamentale nella psicologia moderna: le scimmiette sceglievano la madre pelosa. L’attaccamento all’altro è importante, anche da un punto di vista evoluzionistico: per chi ha un mese di vita, la garanzia migliore di salvezza è stare attacati al caregiver. È un meccanismo ancestrale latente che si riattiva da adulti: quando ci innamoriamo».

Lo psicoterapeuta Mattia Cis è autore del saggio Perché ho così bisogno di te. Quando amare fa troppo male (Vallardi)

È la paura di perdere l’altro a riattivarlo?

«Sì, soprattutto per chi ha avuto difficoltà nelle relazioni primarie, con figure di accudimento un po’ spaventose, insicure, incostanti. In questi casi, da adulti, rimettiamo nella relazione presente quella parte di noi spaventata, piccola, primitiva, che invece di instaurare una relazione paritaria, scivola in una modalità regressiva, in dipendenze affettive in cui paure ataviche divorano la nostra libertà».

Come riconoscere una dipendenza tossica

Una dipendenza è per forza negativa?

«Dipendere dagli altri è normale. Tutto ciò che ha a che fare con le relazioni implica una cessione di parte della nostra libertà a favore dell’altro: è necessario, altrimenti non si creerebbero legami».

E quando la dipendenza è disfunzionale?

«Quando quella relazione diventa l’unica forma di sopravvivenza. Quando, anche se non corrisponde ai miei bisogni di serenità e di realizzazione, metto tutto in secondo piano per cercare di non perdere l’altro».

Se fa male non è amore: si riconosce in questo slogan?

«In ogni relazione c’è una parte di stanchezza o di fatica, affrontarla serve spesso a ritrovare il centro, a rimetterci in gioco. Ma c’è un limite da non valicare: è il caso degli abusi, della violenza fisica, sessuale, psicologica. Certe derive sono inaccettabili. Nella stragrande maggioranza delle dipendenze disfunzionali, quegli abusi sono agiti dagli uomini nei confronti delle donne, le statistiche lo confermano. Per questo è cruciale che le donne si autorizzino a usare l’aggressività o altre strategie in senso protettivo, che acquisiscano piena consapevolezza delle dinamiche per cui spesso finiscono per farsi andar bene convivenze e incontri obiettivamente pericolosi».

Il ruolo degli uomini nella violenza di genere

La violenza di genere, però, è un problema degli uomini.

«Lo dico in modo netto: in nessun caso le donne vittime sono responsabili del discontrollo dei loro carnefici. Ma a renderle più vulnerabili concorrono spesso i fattori descritti nel libro: l’avere per esempio vissuto in contesti in cui i propri bisogni, il diritto a essere felici non erano considerati o venivano messi in secondo piano da genitori distratti, lacerati da crisi di coppia o da problemi di salute. Fattori come questi inducono molte donne a interiorizzare idee negative su di sé, a maturare un’immagine di femminilità distorta che le porta a credere che l’uomo che riconosce in loro quelle idee negative interiorizzate è l’unico che può amarle per ciò che sono».

Sono le stesse pulsioni che spingono un uomo nella spirale dell’aggressività?

«Ci sono spinte scatenanti trasversali, legate a esperienze traumatiche, alla scarsa autostima, a condizionamenti culturali. Abbiamo, come società, un problema con l’aggressività e con la violenza, siamo tutti più arrabbiati, uomini e donne. Però c’è una modalità specifica, degli uomini – non di tutti, ma di molti – di esprimere l’aggressività e di farlo anche dentro le relazioni con le donne, che è davvero solo un problema maschile: oltre a essere una questione morale o di coscienza, è un fatto culturale».

Come si affronta?

«Da uomo, penso che il mio genere abbia poca consapevolezza e cultura rispetto al femminile. Nessuno insegna ai maschi a guardare le cose nell’ottica della differenza, negli ambiti quotidiani, emotivi, sessuali. Tanti agiscono, sulla base di un’idea maschile della donna, per questo dico che è una questione culturale e sociale, che si manifesta in un contesto in cui la cultura dominante maschile toglie spazio e voce ai bisogni e alla visione del mondo delle donne. Io stesso ho imparato solo da adulto cose su di voi che non immaginavo, perché nessuno me le ha insegnate. Abbiamo la necessità di cominciare a interrogarci, di metterci tutti in ascolto».

Uomini e violenza di genere: agire sulla cultura è possibile

Roberto Ottonelli

«Monica era un’amica di mia moglie. Non l’ho mai conosciuta, perché il suo femminicidio è avvenuto 7 anni prima che noi ci incontrassimo, ma la sua storia è una delle prime cose che ha voluto condividere con me». Ai tempi, Roberto Ottonelli aveva 30 anni, non s’interessava di violenza di genere, ma la vicenda di Monica Ravizza, uccisa dall’ex convivente che non accettava la sua decisione di separarsi e forse di abortire e il trauma che la sua fine violenta ha rappresentato per la moglie e la comunità delle amiche, lo colpì tanto da spingerlo a scrivere Credi davvero che sia sincero (Bertoni Editore).

Credi davvero (che sia sincero)

Nel libri, ripercorre la relazione tra Monica e il suo carnefice, «cercando di far luce, da uomo, sulle tappe dell’escalation verso la violenza del suo assassino» spiega Ottonelli che, con la regista e sceneggiatrice Alice Grati, ha adattato il testo per il teatro e ora lo porta in giro, attraverso l’Italia insieme alla madre di Monica, con cui ha fondato l’Associazione Difesa Donne: noi ci siamo, a cui destina i proventi della vendita del libro, (difesadonne.com).

Riuscire a cambiare modo di pensare

«Si parla poco degli uomini violenti, non sappiamo mai se, una volta condannati, arrivino a prendere coscienza, ad assumersi la responsabilità di ciò che hanno fatto» continua Ottonelli, che ha appena pubblicato per Mursia Il dolce sorriso della morte, thriller che ha ancora una volta al centro la violenza maschile. «Sembra che a interessarsi di questi temi siano sempre e solo le donne e non va bene, perché quando ai nostri incontri intervengono gli uomini, vengono fuori cose importanti. Come è capitato a me, ripercorrendo le tappe del delirio di possesso dell’assassino di Monica, molti di loro ammettono di essersi ritrovati, in momenti particolari della vita, intrappolati negli stessi pregiudizi, ostaggio di idee e paure talmente radicate nella nostra cultura patriarcale che non ci si presta nemmeno attenzione.

Dal pensiero, per esempio, che la fine di una storia rappresenti un fallimento per un uomo ci sono passato anch’io. Riesco a comprendere dove ti possa portare quell’ossessione se non hai gli strumenti per controllarla e liberarti dai condizionamenti dalla pressione sociale. Se non trovi né il coraggio di metterti in discussione né l’empatia per comprendere la donna che dici di amare. La violenza di genere è un problema della società e – da uomini, da padri – dobbiamo farcene carico».