Non è facile confrontarsi con un personaggio esistito. Tanto più se grande e complesso come Amy Winehouse, la cantante vincitrice di 5 Grammy che a 27 anni, il 23 luglio del 2011, è morta con il fisico sfatto dalla droga, l’alcol e i problemi alimentari. Chi l’ha vista di persona, anche in Italia, la ricorda magrissima, instabile e negli ultimi tempi anche incapace di tenere il palco (ci sono alcuni filmati online in cui è smarrita e davvero in difficoltà). Una donna capace di regalare emozioni immense ma anche tanto infelice e sola.
Unica, meravigliosa, ma fragile e sola
L’abbiamo ammirata ma ci siamo anche addentrati, forse fin troppo, nella sua anima. Era alla mercé di tutti: dei fan, dei discografici, del padre, di fidanzati improvvisati o calcolatori. Come il marito Blake Fielder-Civil che l’ha sedotta, introdotta all’eroina, sposata di corsa (senza accordo prematrimoniale) quando ha capito che star era diventata e poi mollata, ancora una volta, dopo che in carcere si è disintossicato e lei è rimasta la tossica da compatire. Amy lo amava pazzamente. Ed è proprio questa ossessione così bene raccontata nell’album che l’ha resa immortale, Back to Black, che l’ha portata a perdersi.
Un’anima divisa in due
Sam Taylor-Johnson, artista prestata al cinema, ci prova a raccontare un’anima divisa in due, tra luce e abisso in Back to Black. Amy, nel film ora nelle sale, è una ragazza esuberante che trova nel jazz e nella musica la sua ragione di vita – memorabile è la scena in cui, cuffie alle orecchie, per strada canta Doo-Wop (that thing) di Lauryn Hill- che è cresciuta con dei modelli come Sarah Vaughan e Billie Holiday. È sboccata, beve, risponde per le rime come la gran parte delle adolescenti inglesi cresciute in periferia. Affamata di vita e di passioni anche momentanee non si fa mettere i piedi in testa finché la musica e la fama non la travolgono e viene fuori la sua vera anima, sensibile – forse troppo – dietro alla scorza dura.
Incide il primo album, Frank (da Frank Sinatra un suo idolo), e subito mette le cose in chiaro: «Io non sono una di quelle fottute Spice Girl» urla al suo manager discografico che la sta lanciando nell’olimpo, dai club ai palchi dei teatri. Intanto beve, fuma, mangia e poi vomita, fa sesso, suona, urla, manda al diavolo. Tutto all’eccesso, tutto presto. La metamorfosi avviene grazie all’adorata nonna, ex cantante di nightclub: la pettina come una cantante degli anni ’50 con la cofana e la lacca, le presta i gioielli antichi. Lei si trucca con la riga, diventa la Amy dei paradossi: mini jeans stracciati, T-shirt con l’ombelico in vista, tatuaggi con le pin up, ballerine ai piedi come Brigitte Bardot, il piercing sopra al labbro, i fiori tra i capelli, canzoni dal sapore dolce, swing e jazz, ma con parole che trafiggono come coltelli. Amy è unica.
Femminista senza volerlo
Non è femminista dice, perché le piacciono troppo i ragazzi. Eppure la sua determinazione, l’originalità, la voglia di seguire la sua strada… sembra una reinterpretazione di Courtney Love, una diva di altri tempi con l’anima punk. Quando una bambina la riconosce mentre sta comprando diverse bottiglie di superalcolici, e le chiede un autografo, lei sorride e le firma lo scontrino.
Pressata dal successo
I paparazzi la inseguono come se fosse Lady Diana o un’attrice della Dolce vita. E lei cade sempre più giù, anche letteralmente. Diverse volte devono raccattarla da terra e portarla a casa. Il film racconta tutto questo, si concentra su di lei anche grazie alla bellissima interpretazione di Marisa Abela. Ma come ha fatto a diventare così? Com’erano davvero le persone che le stavano attorno? Quanta pressione c’era su una ragazza di appena 20 anni? Il film non si sofferma, sembra volare in superficie. E il confronto con il documentario Amy diretto da Asif Kapadia che uscì nel 2015 e si concentrava su coloro che la circondavano (il padre nel film di Sam Taylor-Johnson ne esce fin troppo bene e Blake è molto più “centrato” e figo di quanto lo fosse forse nella realtà) è inevitabile.
Una diva che non morirà
C’è chi dice che forse sono passati troppi pochi anni per celebrare così una diva. E chissà cosa sarebbe diventata se non fosse morta a soli 27 anni per intossicazione da alcol. Rimangono tre album, uno postumo Lioness: Hidden Treasures, 5 Grammy vinti, una eredità raccolta da altre cantautrici (una su tutte Adele). Ma i divi che scompaiono giovani, come James Dean o Marilyn Monroe, hanno per sempre un’aura speciale, un fascino immortale, sempre vivido. E Amy Winehouse è così.