Quando nel 1985 uscì Meno di zero, Bret Easton Ellis aveva 20 anni. Non poteva immaginare che la sua tesi finale per un corso di scrittura creativa sarebbe diventato uno dei romanzi di culto della Generazione X. La sua era una voce nuova, una di quelle – insieme a David Leavitt o Jay McInerney – che raccontavano storie “minimali” con un linguaggio crudo, diretto. Parlava di una generazione edonista e nichilista, ragazzi di Hollywood ricchi e annoiati che scandivano le giornate confrontandosi col nulla, aiutati dalle droghe, lo shopping, gli status symbol e Mtv. La forza del romanzo stava nella sincerità e brutalità con cui li ritraeva, senza censure né moralismi. Semplicemente, c’erano. «Se avessi pensato a quello che sarebbe diventato quel romanzo lo avrei scritto meglio» ride l’autore, pantaloni della tuta, Lacoste e felpa con cappuccio neri, sorseggiando un caffè nella saletta di un hotel a Milano.
Le schegge, il nuovo romanzo di Bret Easton Ellis
Il jet lag l’ha tenuto sveglio, mi dice, e prima del nostro incontro ha passato la mattina a leggere L’usanza del paese di Edith Wharton. Il fantasma di Meno di zero aleggia intorno a noi, non solo perché Bret Easton Ellis incarna il tipico personaggio dei suoi romanzi – bianco, californiano, un po’ scazzato, cinico, ironico, a tratti davvero profondo – ma anche perché il suo nuovo libro Le schegge (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia) torna sul “luogo del delitto”: 38 anni dopo Meno di zero e a 13 da Imperial Bedrooms, siamo di nuovo fra i rampolli di Los Angeles, in macchina su Mullholland Drive, sdraiati a bordo piscina di sontuose ville, inciampando contro tavolini dove stazionano piste di coca e boccette di Valium, seguendo 17enni alle prese con la scoperta del sesso mentre i genitori liftati bevono whisky alle 10 di mattina. Lo sguardo però è cambiato: non siamo più immersi in quel mondo, ma lo scrutiamo da lontano con la lente dello scrittore (quasi) 60enne che ricorda la sua giovinezza, le giornate passate con gli amici, le paure, il sesso con una punta di nostalgia e romanticismo.
L’intervista a Bret Easton Ellis
Il libro, che inizia come un’autofiction, con l’autore che parla di se stesso e di come è nato il romanzo, racconta di un 17enne che sogna di diventare scrittore, ascolta gli Ultravox, i Duran Duran e i Blondie, frequenta l’ultimo anno alla Buckley, ha una fidanzata e diverse relazioni promiscue. Si chiama Bret. Sullo sfondo ci sono un serial killer, il mondo del cinema, gli anni ’80 e indizi di cose già raccontate negli altri suoi romanzi. «Sto lavorando alla sceneggiatura di una puntata pilota tratta da Le schegge che mi ha affidato la rete Hbo» mi dice dopo che, in risposta al mio «Nice to meet you», ha elencato le cose fatte durante la mattinata (tra le quali, oltre alla lettura della Wharton, un salto al buffet dell’albergo e le parole crociate). «Il regista dovrebbe essere Luca Guadagnino, con cui ho cenato qualche sera fa, ma ancora non è stato trovato un accordo economico. In ogni caso, c’è una lunga lista di registi che vogliono farlo».
Da Meno di zero a Le schegge
C’è chi pensa che l’intera sua produzione sia un unico grande romanzo, con continui rimandi dall’uno all’altro, e io qui ho trovato tante cose di Meno di zero. Cosa l’ha spinta a scrivere Le schegge e raccontare di nuovo un po’ di sé? «Ogni libro è il risultato di mesi in cui sento qualcosa» mi risponde. «E sono stati anche mesi di dolore: perché sto pensando al mio passato? A Matt Kellner? Perché mi sento in colpa per Debbie Schaffer? Cos’è successo a Ryan Vaughn? Ero innamorato di Tom Wright… Tutti questi personaggi mi hanno ossessionato durante il lockdown. Il fatto è che sto diventando vecchio e sto pensando al passato: se lo metto a confronto con la libertà, la bellezza e la sensualità della gioventù, il presente mi sembra terribile». I personaggi che ha citato, mi conferma, sono in qualche modo esistiti ma i nomi naturalmente sono inventati. È come una terapia, gli dico. «Ma molto più divertente. Scrivere è un’esplosione, il più grande divertimento che puoi avere».
La trama di Le schegge
«Ora sono vecchio, rilassato. A 18 anni ero cool, ma non avrei potuto raccontare le cose come stavano davvero. Avevo una ragazza, mi nascondevo, facevo finta di essere quello che non ero. Non sarei stato onesto riguardo alla mia omosessualità. E poi non avevo l’ambizione letteraria né il talento per scrivere un libro così lungo come Le schegge» mi rivela. «Lo stile è diversissimo da Meno di zero: qui ci sono tanti sentimenti, è un romanzo super emotivo. È la storia di un 56enne che si guarda indietro e che cerca di essere il più possibile onesto prima di dimenticare tutto». Alcuni posti che lui descrive non ci sono più: cinema, teatri, mall, club. «Ogni cosa è cambiata. Anche se Bel Air e Hollywood sono rimaste fondamentalmente le stesse». E poi c’è la musica, tanta. «La musica è importantissima, soprattutto quando sei giovane, ti segna in ogni momento della giornata, ti parla, ti insegna qualcosa sul mondo e te la porti dietro per tutta la vita. Suonavo in una pop band da ragazzo. Ho scritto centinaia di canzoni. Mi divertivo tantissimo, andavo in spiaggia e leggevo molto».
Lo spirito dark dei suoi romanzi
Da dove viene allora quello spirito dark che ritroviamo nei suoi romanzi? «Quando mi sono messo a scrivere, mi sono reso conto che avevo una certa idea di Los Angeles influenzata dagli scritti di Joan Didion e di chi ha raccontato la parte oscura e corrotta della città, come ha fatto per esempio Raymond Chandler. Non saprei dire quanta violenza c’è in Meno di zero ma si sente la paura, il terrore, perché c’era una parte di me che in quel momento li provava». Terrore significa anche Stephen King, l’autore amato da ragazzo, citato anche in Le schegge, e di cui mi snocciola i libri letti anno per anno. «Ero un teenager, ero ossessionato dalla fantascienza, scrivevo i miei primi graphic novel e amavo i film horror. King stava iniziando a pubblicare proprio in quegli anni, faceva parte di quel mondo e mi ha molto influenzato». E oggi? È un ascoltatore onnivoro (rap, country, Japanese pop, Kendrick Lamar, Taylor Swift, la band neozelandese The Beths), il suo compagno è un musicista e legge ancora molto (l’autobiografia di Lauren Bacall e una biografia di Keith Haring).
Da New York a Los Angeles
«La violenza fa parte della vita e negli Usa ce n’è molta» mi racconta per spiegare in parte la brutalità che c’è in American Psycho, ambientato invece a New York. «Sono andato a vivere lì quando ero una celebrità. La New York che sognavo era quella underground, dell’East village, dove potevo scrivere i miei romanzi. Invece ho conosciuto quella dei red carpet e dei party eleganti. Ero diventato un personaggio di New York, molto differente dal Bret di Los Angeles, ossessionato dallo scrivere American Psycho, ma ero pieno di energia giovanile, capace di stare fuori tutta la notte». A Los Angeles poi è tornato a vivere dopo che il suo ragazzo è morto: «Era uno scultore, giovane, è stato uno shock. E ho capito che non potevo più vivere lì. E poi stavo cominciando a scrivere sceneggiature. That’s life».