In jeans e maglietta bianca, Cécile de France sembra più a suo agio – e molto più giovane – che negli outfit da star che indossa sui red carpet, forse suo malgrado. L’attrice belga, 48 anni, è oggi uno dei volti più amati del cinema francese, e non solo, ma sembra passata indenne attraverso la celebrità.
«All’inizio mi lusingava, poi sono tornata con i piedi per terra» ha detto dopo L’appartamento spagnolo di Cédric Klapisch, che l’ha resa popolare nel 2002 portandola a vincere anche un César, l’Oscar francese. «È come avere davanti una torta al cioccolato 24 ore su 24: dopo un po’ torni a desiderare il cibo di sempre, tanto più che io sto bene nella mia vita normale».
Non è cambiata neppure dopo che Clint Eastwood l’ha voluta in Hereafter con Matt Damon (2010), Paolo Sorrentino nelle serie The Young Pope (2016) e The New Pope (2019) e Wes Anderson in The French Dispatch (2021). Vive tra i set e le campagne della Piccardia, nel nord della Francia, dove ha trovato rifugio con il marito Guillaume Siron, musicista conosciuto nel 1997, e i figli, Lino e Joy, 16 e 11 anni.
In questi giorni la vedremo interpretare una figura femminile molto verace. Ritratto di un amore di Martin Provost racconta una relazione fuori dagli schemi: quella tra il pittore francese Pierre Bonnard (l’attore Vincent Macaigne) e Marthe de Méligny, donna di origini umili ma di grande fascino che ne fu musa, compagna e moglie, oltre a diventare pittrice lei stessa. Cécile ne interpreta meravigliosamente la vitalità e l’erotismo che poche osavano o potevano esprimere tra fine ’800 e inizio ’900.
Intervista a Cécile de France
È stata colpita più dalla storia d’amore o dalla personalità di Marthe?
«Soprattutto dalla ricchezza del personaggio, che il film racconta dal giorno in cui incontra Pierre Bonnard fino alla morte. Si chiamava in realtà Maria Boursin, veniva da una famiglia modesta e da un’infanzia infelice, ma per nasconderlo si inventò il nome aristocratico di Marthe de Méligny, una bugia rimasta segreta per 35 anni».
È stata la musa più rappresentata: Bonnard la ritrasse oltre 1.000 volte.
«E proprio il suo mistero fu una fonte di ispirazione. La mostrava a testa bassa o di profilo perché intuiva qualcosa di non detto, che sarebbe emerso solo in età avanzata. Anche lei iniziò a dipingere, in anni di estrema instabilità psicologica. Espose solo una volta, a Parigi nel 1924, e ci è voluto quasi un secolo per rivedere i suoi lavori al Museo Bonnard di Le Cannet, in Costa Azzurra, dove la coppia viveva»
Cécile de France: diventare Marthe
È vero che anche lei dipingeva da ragazzina?
«Sì, mi ero iscritta alla scuola di Belle Arti già a 10 anni e tornare a disegnare per questo film è stato divertente. Più facile per me che per Vincent, perché la pittura di Marthe era istintiva e ingenua, quella di Pierre più sofisticata».
Ha dato a Marthe una grande naturalezza anche nell’erotismo e nella nudità.
«Non le dirò se abbiamo avuto controfigure. Meglio non rivelare troppo, per non togliere magia al film».
Chi ha visto Möbius di Eric Rochant, una decina di anni fa, ricorda lunghe scene d’amore con Jean Dujardin, visto che il film raccontava la passione tra due agenti segreti. Difficile affrontare scene così?
«Un po’ sì, ma fa parte del lavoro. E poi quando c’è una buona atmosfera sul set è facile sdrammatizzare. Sia il regista sia Jean erano stati molto delicati».
È stato emozionante essere diretta da registi come Clint Eastwood, Paolo Sorrentino e Wes Anderson?
«Di sicuro sono sempre un po’ colpita dai grandi nomi e guardare geni così all’opera ti fa restare a bocca aperta in tanti momenti. Sembra anche di ricominciare, o quasi, quando ti ritrovi in un universo diverso da quello che conosci. Alla fine però si tratta sempre di artisti, ciascuno racconta il proprio mondo… Ed è lo stesso mestiere anche per me, che si tratti di un set pieno di gente e di risorse o di un piccolo film indipendente».
Una diva misteriosa
Dà spesso volto a storie e donne molto originali. Ha raccontato la relazione con un uomo più giovane in La Passagère di Héloïse Pelloquet del 2022 e una madre sull’orlo di una crisi nel recente Dans l’eau di Élise Otzenberger, non uscito ancora in Italia. Una sua scelta?
«Cerco sempre qualcosa di nuovo, che non ho ancora fatto. Di La Passagère ho trovato interessante la protagonista, una tipa diciamo disobbediente. Con Sarah in Dans l’eau ho avuto la possibilità di interpretare una madre, cosa che non mi è successa spesso. La cosa più bella di questo mestiere è proprio attraversare vite diverse dalla mia e, grazie ai personaggi che interpreto, fare quello che normalmente non farei mai».
Di quello che fa lei, in effetti, non ama dire nulla. È difficile tenersi lontana dalle indiscrezioni sulla vita privata?
«A me sembra di essere già molto esposta, sullo schermo e nelle riviste. Faccio il possibile per far conoscere i film, sperando che il pubblico abbia voglia di andare a vederli, perché la considero una missione o quasi. Tutto il resto mi sembra superfluo. Non è neppure un calcolo: sono fatta così».
Dicono che lei chieda ai fotografi di non ritoccare i suoi ritratti. L’età non la preoccupa come spesso succede alle attrici?
«Vorrei continuare a raccontare donne in cui le spettatrici possano riconoscersi e, per farlo, è importante essere naturali. Per qualche anno si è sentita la mancanza di personaggi femminili sopra i 40 anni, ma le cose stanno lentamente cambiando e io sono ottimista. Non guardo ai 50 con paura, trovo che le don- ne siano molto belle nella maturità intellettuale».