Il genio funambolico di Cinzia Spanò, attrice, autrice e regista teatrale, ha coniato un neologismo: “esageranza”. «Una parola in codice per indicare ogni rivendicazione e buona pratica femminista: è un potere di cui tutte siamo dotate, ma come ogni talento va coltivato», suggerisce l’artista, che è anche socia fondatrice e presidente dell’associazione Amleta per il contrasto al divario di genere e alla violenza nel mondo dello spettacolo.

Esagerate: dall’aggettivo all’esortazione

«Quando protestiamo o segnaliamo che le donne sono ancora vittime di discriminazioni, ce lo dicono spesso: “Esagerate!”. Questa parola funziona un po’ come una gabbia: di solito, per reazione, ci ridimensioniamo. Eppure le cose che chiediamo sono giuste, le disparità reali… Allora, se ce lo rinfacciano, tanto vale esagerare». È con questo obiettivo che Spanò ha scritto, con Paola Giglio, Esagerate! Più che, un aggettivo un’esortazione, vorticosa “stand-up tragedy” che, dopo il debutto al Teatro Miela di Trieste il 2 marzo, sarà in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 27 al 31 maggio, con le scenografie di Ginevra Rapisardi e i costumi di Adriana Morandi confezionati da Molce Atelier, sartoria terapeutica che sostiene e forma donne vittime di violenza. E intanto Spanò ne porta un estratto al nostro evento dell’8 marzo all’Università degli Studi di Milano.

Intervista a Cinzia Spanò: come nasce Esagerate

Foto di Laila Pozzo

Questo spettacolo è un traguardo importante per il suo percorso artistico.

«È un concentrato di ciò che da anni cerco di fare: aprire gli occhi del pubblico mettendo in scena, con ironia e fermezza, notizie e fatti che servano a difenderci dagli stereotipi che quotidianamente ci sentiamo rovesciare addosso. Strumenti utili a smontare una cultura che ancora relega l’Italia al 79° posto nel mondo, ultima in Europa, nel Global Gender Gap Index del World Economic Forum. Noi tutte abbiamo problemi con la salute, i soldi, il lavoro, i nostri stipendi sono inferiori a quelli dei colleghi e nessuno ci spiega perché. Questo spettacolo vuole essere un invito all’azione che fornisce una sorta di cassetta per gli attrezzi per l’empowerment».

Quali sono le materie curriculari del percorso?

«Gli ambiti in cui si esercita la discriminazione attraversano la società, ma trovo sempre interessante citare un aspetto di cui si parla ancora poco, quello della medicina di genere: lì, il prezzo della disparità si paga in salute. La maggior parte delle ricerche mediche è stata condotta sugli uomini, sulle donne c’è un’incomprensibile carenza di dati, come ha denunciato la studiosa Caroline Criado-Perez, autrice di un libro che significativamente s’intitola Invisibili».

Il 15% delle italiane, ricorda in scena, soffre di vulvodinia, un disturbo non riconosciuto dal Sistema sanitario nazionale.

«Per non parlare di vaginiti recidivanti, o endometriosi: ciò che accade alle donne resta avvolto da un alone di mistero. È il motivo per cui, per esempio, alcune malattie vengono diagnosticate con anni di ritardo, con un impatto invalidante sulla vita. In scena noi scherziamo, ma sono risate un po’ amare. Per questo definiamo lo spettacolo “una stand-up comedy che non ce l’ha fatta”».

Intervista a Cinzia Spanò: raccontare le donne, anche sul palco

Foto di Laila Pozzo

A lungo è stata “solo” un’intensa attrice teatrale. Perché ha cambiato strada?

«Come le cose migliori della vita, il mio impegno nasce dal disagio. Provengo da un’accademia di teatro, per 25 anni sono stata un’interprete “pura”: ho lavorato con un’infinità di registi, praticamente tutti uomini, la quasi totalità dei testi che ho portato in scena era scritta da autori maschi. Per quanto potenti e ispirati, questi testi escludono il punto di vista delle donne sul mondo, che non è per forza migliore, ma rende più credibile e ricca ogni prospettiva. E poi c’è il regista, che è proprio pagato per fare mansplaining e spiegarti, pur non avendo mai abitato un corpo femminile, come si dovrebbe sentire una donna di fronte a certe situazioni. A un certo punto non ce l’ho più fatta».

E ha cominciato a scriverseli da sola, i testi.

«A fare ricerca, scrivere e mettere in scena storie vere di personaggi femminili cancellati dalle narrazioni, dalle mogli degli scienziati che costruirono la bomba atomica alla sentenza storica della giudice Paola Di Nicola Travaglini sul caso di prostituzione minorile ai Parioli, fino alla Resistenza di Palma Bucarelli, che durante la Seconda guerra mondiale mise in salvo i capolavori dell’arte italiana. Non è solo una questione di giustizia: più aumentiamo questa ricchezza di sguardo, meno corriamo il rischio di portare sul palco o sugli schermi stereotipi vuoti».

Il peso degli stereotipi

Stereotipi che non sono mai davvero innocui.

«Una psicologa di un centro antiviolenza di Lecce mi raccontava di aver posto a una platea di 600 bambini e bambine delle scuole medie la stessa domanda: quale pensi sarà il giorno più bello della tua vita? Ecco che i maschi hanno cominciato a dire: quello in cui faccio il giro del mondo, in cui divento un calciatore, un pilota… Alla stessa domanda le bambine rispondevano per lo più: il giorno del mio matrimonio o quando avrò il primo bambino. Sono questi bias inalati coi primi respiri, a tenerci ancora lontane dal soffitto di cristallo, sono i semi che poi portano alla violenza di genere».

Chi nega l’effetto degli stereotipi spesso invoca il merito.

«Anche qui, servono i dati per sfatare la favola del merito, ma ormai si sa che le donne sono quelle che si laureano di più, che ottengono i voti e i risultati migliori. Che più del merito conti il pregiudizio lo dimostra il caso della New York Philharmonic Orchestra, dove le musiciste non entravano fino a quando una sentenza non ha imposto di fare le audizioni “cieche”, con le candidate e i candidati dietro un paravento perché il giudizio non fosse influenzato dal genere. Da allora tutto è cambiato e l’anno scorso c’è stato il sorpasso».

Intervista a Cinzia Spanò: quello che so sulle donne

Ha fondato e presiede Amleta, associazione che monitora la condizione delle donne nel mondo dello spettacolo e la rappresentazione femminile nella drammaturgia. Cosa si vede da lì?

«È importante osservare cosa accade alle attrici, perché si muovono nel contesto in cui gli stereotipi hanno più contribuito a normalizzare e a cancellare l’evidenza degli abusi. Fin dalle accademie ci bombardano con la retorica infondata che, se vuoi fare questo mestiere, a qualche compromesso devi pur cedere. Le attrici lavorano con il corpo e con la materia emotiva, sempre in bilico su un confine che non è tracciato. Per poter attingere a quel mondo interiore, devono abbassare le difese, affidarsi a chi le guida, ai registi e ancor più agli insegnanti. Ciò rende molto difficile comprendere quando si supera un confine. Cosa comporti varcarlo e, nel caso, se denunciare o meno».

In ogni caso, ci si sente sbagliate.

«Quando ti muovi dentro ad architetture patriarcali, pensate da millenni per farti stare in una casella, è difficilissimo sentirsi nel giusto. Ed è il motivo per cui nelle indagini e nei processi per violenza ci sentiamo ancora chiedere: perché non ha urlato? Quando sappiamo – lo spiega bene Clarissa Pinkola Estés in Donne che corrono coi lupi – che l’educazione che ci viene impartita fin da bambine concorre a farci diventare prede, che di fronte a un’aggressione spesso non reagiamo perché nessuno ci mai ha mostrato come si fa. E anche quest’impotenza ci viene rinfacciata, si trasforma in ulteriore frustrazione, nella prova che non hai subito una vera violenza. Un corto circuito che va spezzato».

Con la collaborazione scientifica di Università degli Studi di Milano

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