C’è violenza nel nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, in libreria dal 28 novembre (Einaudi). È la violenza che nasce dall’isolamento, dalla bruttura, da una terra bellissima che chiede sacrifici. È la violenza che distrugge i sogni e la giovinezza, che crea paura, incertezza, e non si riesce a raccontare. È la storia della fine di tre vite. La fragilità nasce da questo, e non solo.

Donatella Di Pietrantonio: non esiste un’età senza paura

«Non esiste un’età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c’è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent’anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c’erano tutti. I pastori dell’Appennino, i proprietari del campeggio, la forestale, la polizia. Tutti, tranne tre ragazze che non c’erano più» scrive l’autrice, che nel 2017 ha vinto il Premio Campiello con L’arminuta.

La trama di L’età fragile

«È un libro di 176 pagine, ma ci ho messo dentro tanto» dice. E intende passione, fatica, misura, voglia di andare a fondo. Il romanzo nasce da un ricordo che riguarda la sua terra, l’Abruzzo, e che ha covato a lungo come un fuoco sotto la cenere. Un tragico fatto di cronaca avvenuto tanti anni fa – due ragazze uccise sulla montagna dopo una violenza sessuale, una terza ferita – che diventa la scintilla per parlare di fragilità, di quanto noi esseri umani siamo precari.

Donatella Di Pietrantonio: siamo tutti fragili

«60 anni, la mia età, è il periodo che viene comunemente considerato della saggezza, della serenità, del riposo, ed è invece un’età in cui ancora bisogna rispondere alle persone importanti che sono intorno a noi: i figli che non hanno ancora raggiunto i propri obiettivi e i genitori anziani. La fragilità in questo senso riguarda anche noi». Lucia, la protagonista, la voce narrante, è tra due poli: la figlia Amanda che è tornata da Milano, dove studiava, con un peso nel cuore; il padre anziano, un padre forte, roccioso, con cui ha combattuto tutta la vita, che non vuole arrendersi al passare del tempo. Una “eredità” che fa rivivere sensi di colpa, una figlia che soffre e le ricorda quello che ha passato anche lei. «Tutte le età possono essere fragili» dice Donatella Di Pietrantonio.

L’intervista a Donatella Di Pietrantonio

Raccontare la violenza quanto è difficile?

«Non ho mai pensato di scrivere un libro sulla violenza di genere, ho sempre avuto paura che potesse essere qualcosa di programmatico, “scelgo il tema, ci scrivo un libro”. Sono operazioni che corrono il rischio di risultare finte. Non avevo mai pensato davvero di scrivere su questo. Dopodiché in un modo anche banale, una conversazione davanti a un paesaggio innevato, sono stata colta dal ricordo di quell’episodio e lì è scattato qualcosa che ha cominciato a lavorare dentro di me. Era qualcosa di profondo, legato alla mia appartenenza, al mio territorio che ha una natura importante, con queste montagne bellissime, queste distese di boschi… Un territorio dove non ti aspetteresti mai la violenza. È stata questa l’urgenza: raccontare di una violenza che ti coglie in un momento della tua vita in cui sei veramente aperta al mondo, senza difese, in un posto così».

Lei smonta questi pregiudizi positivi.

«Come dice il personaggio della pm: “I boschi sono suggestivi ma anche pieni di ombre”. Possono tradirti, puoi perderti».

E anche quelli sulla montagna.

«E su chi ci vive. C’è un’altra frase della pm, che a un certo punto dice: “La natura è bella per i ricchi, non se devi lavorare come uno schiavo” in totale isolamento e alienazione. In quelle condizioni, anche nel posto più bello del mondo ci si può distaccare dall’umano».

Anche Milano, dove la figlia di Lucia va a studiare, si rivela una città ostile.

«Per i ragazzi che vivono in provincia, Milano, Roma, Torino sono una meta ambita. La grande città è vista come il luogo di tutte le possibilità. Per via del mio altro lavoro (la dentista, ndr) mi capita di chiedere ai ragazzi cosa vorranno fare dopo la maturità e loro mi rispondono non con il cosa, ma con il dove. C’è il rischio di restare delusi se queste sono le premesse: non è così facile ambientarsi nelle dinamiche della città, nei suoi ritmi, nelle relazioni. Qui in provincia i legami sono molto protettivi in un certo senso, c’è sempre quel rapporto di vicinato che nella città non c’è e spesso si corre il rischio di perdersi».

L'età fragile copertina

Amanda viene aggredita, subisce una rapina, quasi all’inizio del romanzo.

«Pur non avendo conseguenze gravi, quel fatto provoca la caduta di tutte le sue aspettative, forse le sue illusioni, di poter cambiare vita andando via dal paese. È una tremenda doccia fredda sul suo passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Pensava di emanciparsi, di liberarsi di questo luogo piccolo che l’ha protetta ma anche limitata. Invece quell’aggressione, la violenza inaspettata nel momento di massima apertura al mondo, la blocca».

L’ambiente plasma il carattere delle persone

Una terra ostile, come certi luoghi dell’Abruzzo, plasma il carattere delle donne che ci vivono?

«Io lo credo sempre: le terre, che siano ostili o no, plasmano il carattere delle donne e degli uomini. Le geografie sono determinanti nella vita delle persone: se fossi nata nel centro di Milano non sarei la stessa persona. Sono diverse le possibilità che il luogo di nascita ti dà, ma soprattutto sono diversi gli ostacoli ambientali che tu devi superare. Qui ho mostrato anche il maschile che devi affrontare se nasci in un posto così o almeno che si doveva affrontare negli anni ’90. Lucia, la protagonista, ha dovuto combattere il padre, fino alla fine. Sicuramente è l’ambiente umano che ti plasma, però voglio anche sfatare l’idea che tutto sia legato all’Abruzzo. È legato all’Abruzzo, ma come esempio di tutte le terre che gli assomigliano: ne abbiamo tante, in Italia e nel mondo».

A differenza degli altri suoi libri, qui gli uomini hanno tanto spazio.

«C’è il maschile nelle sue varie declinazioni. Sicuramente c’è un maschile patriarcale, ma il mio sguardo è dettagliato: vede ciò che questi padri ci hanno fatto, quanto ci hanno limitate negli anni della crescita. Ma vede anche di che cosa loro sono figli: a loro volta di un altro patriarcato, più primitivo. Comunque sono stati padri presenti e hanno dato amore, anche sbagliando. È stato difficile contrastarli in questa loro complessità, e infine si può anche trovare un perdono».