«I libri sono come le persone. A volte non sono come appaiono. A volte custodiscono segreti». Donato Carrisi si diverte a giocare col lettore, a scombussolare le carte, a lasciarci col fiato sospeso, ad aprire altre storie. E questa frase, pronunciata da uno strano personaggio che aggiusta i libri abbandonati dagli altri, e che compare nel suo nuovo romanzo, L’educazione delle farfalle (Longanesi), ci mette in guardia: siamo solo a metà strada e tanto ancora deve essere svelato prima di arrivare alla soluzione del mistero. Del resto, lui è il re del thriller italiano, e le pieghe oscure dell’animo umano sono la sua specialità. Come qui, dove ci mette di fronte a una delle nostre più grandi paure: la perdita di un figlio. Aurora ha solo 6 anni quando scompare durante un incendio nello chalet dove sta trascorrendo una settimana sulla neve con altre coetanee. E da quel momento Serena, la mamma ambiziosa e ricca, che è (quasi) sempre riuscita a controllare in ogni minimo dettaglio la sua vita, cade in un precipizio di smarrimento e disperazione. Come ne uscirà?
Carrisi ci mostra le sue fragilità, la ricerca ossessiva della verità, il rapporto madre-figlia, l’amore che si concretizza dopo la scomparsa, con quel fuoco che arde sulla copertina, che affascina e spaventa e sembra bruciare per tutte le pagine. «Ho trattato molti casi di scomparse nei miei libri precedenti ma non mi ero mai occupato di una bambina dispersa, che è molto più atroce» rivela lo scrittore e regista. «Perché qui c’è una incertezza di fondo, c’è anche una speranza, a volte malsana, ma c’è. Il fatto che tua figlia sia dispersa in un incendio non ti lascia molte possibilità: è un altro modo per chiamare la morte perché qualcuno non è stato in grado di provare che sia avvenuta, ed è lacerante. Per raccontare il personaggio di Serena sono partito proprio da quella emozione e sono andato a ritroso: al prima, quando non voleva assolutamente essere madre e non ci pensava nemmeno. E quando scopre che sua figlia è dispersa – una cosa che dichiaro subito nel primo capitolo – è come se quell’emozione tornasse indietro e travolgesse anche la Serena di prima. Come un’onda che si propaga nel passato. C’è una domanda che ogni genitore si farebbe in quella situazione: avrei potuto impedirlo? Che poi si trasforma in: è anche colpa mia».
L’intervista a Donato Carrisi
Perché questa donna, che fa la broker nell’alta finanza e che lei racconta all’inizio come “lo squalo biondo”, è piena di incertezze?
«Una volta mio figlio mi ha chiesto “la farfalla lo sa di essere stata prima un bruco?”. È una domanda molto interessante ed è applicabile anche alla maternità: quando il desiderio si trasforma in una maternità vera e propria le donne cambiano? Sono persone diverse? Serena sapeva di essere madre o lo è diventata dopo che la figlia è stata dichiarata dispersa? Non penso che la genitorialità sia un istinto, penso che sia una cosa che viene fuori in un momento che non si può prevedere, inaspettatamente, ed è una cosa strana quando ti succede perché capisci anche che questa cosa non cambierà mai per tutto il resto della tua vita».
L’angoscia qui si sente forse più che negli altri suoi romanzi. Quali sono le paure di Donato Carrisi?
«Ho sempre delle grandi paure. Mentre scrivevo questo romanzo mio figlio è partito per un campo scuola in montagna. Era la prima volta, le lascio immaginare cosa è stata quella settimana per me… È la paura di tutti i genitori, quella di perdere la cosa più preziosa che hanno, però trovo molto utile anche parlarne. Parlare delle paure aiuta a scacciarle. Molto spesso siamo restii a parlarne, anche delle più grandi. Rimangono inconfessabili perché ci sembra quasi che solo accennandole certe cose possano accadere. È un atteggiamento un po’ assurdo, scaramantico. Invece parlarne è un modo utile per individuarle e soprattutto per affrontarle».
E allora parliamone.
«Le mie paure si riflettono un po’ in quello che scrivo. Sono le paure dell’infanzia, la paura del buio, di tutto ciò che è sconosciuto fino a quelle più contingenti, più presenti».
Qui c’è Serena, la mamma, che svolge il ruolo della “detective”, cerca indizi, vuole sapere.
«È da tanto tempo che non racconto più poliziotti e ho smesso di interessarmi al meccanismo poliziesco. Il thriller secondo me ha una caratteristica in più: può introdurre dei personaggi che sono totalmente lontani dalla “detection” e qui il racconto si muove non attraverso gli indizi ma attraverso i sentimenti che prova la protagonista».
Oggi il lettore, l’ascoltatore o lo spettatore è attratto anche dal genere “True crime”. Perché secondo lei?
«Perché siamo sempre alla ricerca di risposte. Siccome il male il più delle volte è inspiegabile ci illudiamo che affrontando, leggendo o ascoltando queste storie noi sapremo riconoscerlo poi nella vita reale. Il che non accade quasi mai perché la caratteristica principale del male è proprio la capacità di mutare e di continuare a sorprenderci. Però questo non esaurisce il nostro desiderio di conoscerlo. Quelli che rifuggono dal male sono quelli che di solito mi terrorizzano di più».
In che senso?
«Perché in quello scetticismo c’è come un atteggiamento di negazione. Tendono a negare che il male sia presente e radicato nella nostra vita, soprattutto in noi stessi. Nascondo il male come nasconderei la polvere sotto il tappeto, ma la polvere c’è, sta lì».
Queste sue considerazioni le ha messe a punto studiando criminologia?
«Non so se derivano da quello. Più che altro dalla curiosità. Prima della specializzazione in criminologia avevo fatto una tesi sui serial killer e Luigi Chiatti, il cosiddetto mostro di Foligno. Quando fu catturato – anzi, si fece catturare perché nel secondo omicidio fece così tanti errori che si fece trovare – confessò tutto nei minimi dettagli: era un narcisista, lo è ancora, si vantava di essere definito il mostro, si compiaceva perché finalmente era visibile. Non gli importava di scioccare i suoi interlocutori o di aggravare la sua posizione. La cosa incredibile è che l’unica cosa di cui non parlava era la sua infanzia che poi è stata ricostruita grazie a prove testimoniali e si è scoperto in quel frangente che era stato abbandonato dalla madre, aveva peregrinato tra vari istituti, aveva subito ogni genere di abuso, sopruso e violenza. E allora in quel momento eravamo costretti a provare orrore per il mostro ma anche compassione per il bambino. Questo cortocircuito, questa dicotomia la si ritrova in tutti i miei personaggi. È consolatorio definire determinati individui “mostri” perché serve ad allontanarli da noi. In verità non sono così diversi da noi. Non significa giustificarli ma spiegarli».
L’educazione delle farfalle, il titolo, cosa rappresenta?
«Le farfalle non hanno un’educazione: sanno già quando vengono al mondo cosa devono fare. Non è soltanto una questione di istinto: è che ciò che seminiamo noi in qualche modo si riverbererà anche nelle generazioni successive. Quindi è molto importante quello che facciamo nel tempo che ci viene concesso. Nel libro parlo anche dell’effetto farfalla analizzato dal matematico e meteorologo Edward Lorenz: nel 1972 tenne una conferenza intitolata “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?” per dire come ci può essere un collegamento tra tutte le cose. È la teoria del caos in Fisica ma che può essere anche applicata alla vita umana: tutto ciò che facciamo si riverbera nel nostro futuro ma anche nel futuro degli altri. Ma è possibile cambiare anche il passato col presente? Anche questo è un bell’interrogativo».
Che donna è Serena?
«All’inizio è una grande rompipalle, poi sono contento che le si voglia bene alla fine. È antipatica ma poi si trasforma: è il mio gioco col lettore. Tutti i personaggi di questo romanzo, sembrano una cosa poi diventano un’altra. È un po’ una riflessione su tutti gli individui. Noi tendiamo a suddividere le persone tra buoni e cattivi. Un esercizio medievale che purtroppo sta tornando di moda da un po’ di tempo a questa parte. C’è sempre questo desiderio di educare, di epurare gli altri, di impartire lezioni. Nessuno si toglie questo brutto vizio. Ed è triste che invece non riusciamo ad ammettere molto semplicemente che siamo esseri fragili, complessi, che abbiamo una componente positiva ma anche una componente negativa e che sta a noi saperla tenere a freno. Non spetta agli altri farlo. Le nostre scelte pesano, soprattutto sulla nostra vita, ma questo noi lo dimentichiamo. È un periodo strano, veramente strano, abbiamo tutti quest’ansia di giudicare gli altri. Penso che si stia aprendo un’era di profondo oscurantismo».
A proposito di periodo nero aumentano i femminicidi.
«Però sono anche aumentate le denunce delle donne, è aumentata la consapevolezza. C’è la possibilità di cambiare: bisognerebbe accelerarli questi cambiamenti, ma sono sempre culturali. Perché è aumentata la nostra consapevolezza? Perché la nostra cultura è aumentata, il livello – che non è mai sufficiente – però è aumentato. È stato fatto un lavoro in tal senso. Il problema è che adesso rischiamo di perdere tutto».
Come sviluppa lei un thriller?
«Si parte dalla curiosità. Io devo ingenerare nel lettore un senso di curiosità. Per cui il lettore non deve fare a meno di voltare pagina. La tecnica del racconto è essenziale. Dopodiché si sceglie un mistero che può essere piccolo o grande. Se è piccolo lo si fa crescere nel corso del racconto. E poi si dà la possibilità al lettore di scoprire la verità per conto proprio, indipendentemente dai protagonisti, indipendentemente da chi cerca la verità all’interno della storia. Io ho sempre voluto scrivere i romanzi che mi sarebbe piaciuto leggere. Quindi quando scrivo mi comporto da lettore. Credo che un buon libro debba essere un appuntamento quotidiano, quasi un modo per farti svoltare la giornata. Magari hai una giornata pessima però sai che troverai rifugio in quelle pagine e potrai rifugiarti, eclissarti nella storia di qualcun altro. Perciò quando scrivo penso soprattutto al lettore e al modo in cui si avvicina alla storia. Tutto deve essere palpitante e soprattutto veloce».
Ma questo piccolo o grande mistero da cui tutto parte come nasce?
«Ci sono tante ricerche che portano alla scrittura di un libro. Io non saprei dire dove è nata l’idea dei miei romanzi. Non si tratta quasi mai di un colpo di fulmine, magari c’è una cosa che mi ha incuriosito, allora si trasforma, diventa un altro tipo di domanda, una notizia che ho letto, un racconto che ho sentito e mi domando: “Se fosse andato così invece che così?”. Poi ci sono tante suggestioni. In questo caso erano la madre coraggiosa che non vuole essere madre, poi si ritrova suo malgrado a essere madre; un piromane che fabbrica ordigni incendiari che profumano di biscotti, che era una discussione fatta un po’ di tempo fa con un chimico; e poi la storia del rilegatore, dei libri smarriti…».
E la montagna dove è ambientato?
«Avevo già scritto un thriller ambientato in montagna: La ragazza nella nebbia. Quando finiscono i periodi di vacanza le montagne si richiudono, le persone si richiudono in sé stesse, hanno i loro segreti, è tutto più misterioso, oscuro. Era uno scenario perfetto».
Scrittori preferiti?
«Stephen King e CormacMcCarthy: io li trovo molto simili. I cattivi di McCarthy penso che non ce li abbia nessuno».
Il cinema: come regista ha vinto un David di Donatello con La ragazza nella neve. Sta lavorando ad altro?
«Il terzo film, Io sono l’abisso, è dello scorso anno. Il cinema è la mia seconda natura per cui non posso fare altro che assecondarla. Ora sto lavorando a un quarto: anche questo sarà tratto da un romanzo ma non posso dirle di più».
Preferisce il cinema o la scrittura?
«Ho cominciato con il cinema, facendo lo sceneggiatore. E poi sono diventato un romanziere perché ho trasformato la sceneggiatura di un film che nessuno voleva fare in un romanzo. Quando scrivo, scrivo per immagini. Le due cose sono strettamente legate. Non saprei scegliere quella che preferisco. Sono io quelle due cose lì».
Questo è un libro diverso dagli altri o magari è una mia impressione?
«No, è verissimo. Già in Io sono l’abisso avevo sperimentato questo percorso attraverso i sentimenti. Qui lo rendo ancora più esplicito. Trovo che sia la nuova tendenza del thriller, si sta sviluppando anche all’estero. Perché la detection in sé penso che non ci interessi più. Ne abbiamo visti di tutti i tipi. Per cui innestare il thriller in un altro tipo di racconto trovo sia interessante. Sono tutte storie d’amore alla fine. Cercare di far venire fuori qualcosa di diverso lo trovo molto stimolante. Questo cambiamento nel mio modo di scrivere è avvenuto qualche anno fa e penso che non tornerò più indietro».
Quindi non c’è distinzione fra un genere e l’altro? O meglio: si può ancora parlare di genere?
«Le faccio un esempio: L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon è uno straordinario thriller, anche se il suo autore non l’ha mai dichiarato come tale. È un thriller sui sentimenti. C’è sempre una certa difficoltà a chiamare determinati film o determinati romanzi thriller o definirli come genere perché si pensa che questo li squalifichi, squalifichi l’autore. Come se la scelta di genere fosse una scelta più facile. Invece non è vero: io rivendico il fatto di essere uno scrittore di genere, rivendico con forza la nobiltà letteraria di questo genere che tra l’altro ha avuto degli esponenti illustri. Pensi che il primo thriller italiano l’ha scritto Umberto Eco con Il nome della rosa. Io non farò altro che scrivere thriller perché è un meccanismo perfetto per raccontare le cose».