«Quest’anno festeggio 30 anni di gavetta». Edoardo Leo ha deciso di non usare la parola carriera, e non solo per evitare qualsiasi ombra di pavoneggiamento. «Ho sempre voglia di guardare avanti anziché indietro».
Il (quasi) 52enne volto di tante commedie per il grande e il piccolo schermo, da Smetto quando voglio di Sydney Sibilia a Lasciarsi un giorno a Roma, che ha anche sceneggiato e diretto vincendo il Premio Flaiano per la miglior regia, riesce pure a descriversi come un tipo “lento” nonostante gli oltre 50 film da attore, 25 titoli televisivi, vari spettacoli teatrali e un’intensa vita familiare (è sposato con la musicista Laura Marafoti e ha due figli di 17 e 13 anni).
La prima impressione
Stakanovista mascherato?
«È una boutade, ma anche il mio modo di guardare alle cose. E sono davvero riflessivo, nella scrittura e nella selezione dei progetti» precisa ridendo.
Ora si è calato in un personaggio totalmente diverso da quelli interpretati finora: la serie Il clandestino di Rolando Ravello, su Rai 1 dall’8 aprile in prima serata, è la storia di un ex ispettore dell’antiterrorismo sopravvissuto a un attentato in cui la sua donna è rimasta uccisa e un suo agente ha perso l’uso delle gambe. Devastato dal senso di colpa per non aver previsto l’attacco, lascia Roma per trasferirsi a Milano e lavorare come buttafuori, fnché l’indole da detective riemerge e lui accetta di mettere su un’agenzia investigativa con Palitha, il cingalese che gli affitta il locale dove vive. «La sfida è stata rendere accattivante un tipo scontroso come il protagonista Luca Travaglia» anticipa Leo.
Intervista a Edoardo Leo
Cosa l’ha attratta di questa serie così particolare?
«L’originalità del soggetto, appunto. Il protagonista si porta dentro un dolore immenso, ma poi lo mette a disposizione di chi ne ha bisogno. Attraverso le vite degli altri cerca di capire la sua. Da sempre amo raccontare storie di fallimento e rinascita. Credo che molti di noi li abbiano vissuti, anche in piccole dosi, e ci si possano rispecchiare».
Lei si è diplomato con il minimo dei voti al liceo scientifico e si è laureato con il massimo in Lettere. È il suo riscatto?
«Al liceo andavo male, ma ho avuto la fortuna di trovare un vero maestro. Il professor Rodano mi ha fatto amare la letteratura e la poesia, soprattutto mi ha fatto capire che il lavoro può anche coincidere con un interesse profondo. Cosa che poi ha guidato le mie scelte, anche se a chi mi dice “Che fortuna aver trasformato la passione in mestiere” vorrei rispondere che lo fai solo con una dedizione assoluta, lavorandoci 20 ore su 24, altrimenti con la passione ci vai a funghi. Il mio percorso non è stato lineare, sono stato respinto da molte scuole di recitazione, ho studiato da solo. Non so se lo consiglierei ad altri».
Scrive anche in vacanza o di notte. Un’ossessione, quasi una dannazione?
«È una dannazione felice. Scrivere e inventare storie mi appaga. Rolando Ravello, mio amico storico e regista della serie Il clandestino, dice che gli attori sono dei “danneggiati” che vanno alla ricerca del proprio difetto. Ed è vero: recitando cerchi di colmare una mancanza che non sai cos’è, e chissà se lo scoprirai».
Edoardo Leo: l’uomo fuori dal set
Ricorda la fine del liceo come un fallimento?
«Un po’ sì, perché mi avevano consigliato di non proseguire gli studi. Smentirli è stata una soddisfazione, e anche scegliere un mestiere che era un’epifania, visto che la mia famiglia aveva tutt’altra storia. I nonni erano agricoltori del Viterbese, i miei genitori si sono trasferiti a Roma trovando lavoro come impiegati. Erano molto disciplinati, io sono cresciuto con la stessa etica e il rispetto profondo per qualunque tipo di attività».
Pensa di aver trasmesso questa cultura anche ai suoi due figli?
«Lo spero. L’esempio vale più di tante parole, lo so bene perché anch’io mi porto dentro quella lezione involontaria dei miei».
La “felice dannazione” non la isola da famiglia e amici, nella quotidianità?
«Faccio una vita normalissima. Ho amici di lunga data e la famiglia accetta i miei tempi come succede a tanti, pure alla famiglia del panettiere che lavora di notte. Anch’io sono notturno, passo molte sere nel mio studio a scrivere. Negli ultimi 10 anni la popolarità ha aumentato l’esposizione e sento la necessità di defilarmi. La scelta di non parlare del privato l’ho fatta da tempo».
A teatro
Però ci tiene molto al contatto col pubblico, a teatro. Ora è in tournée con Ti racconto una storia. Letture semiserie e tragicomiche, uno show fatto di appunti autobiografici.
«È il mio modo per staccare».
Impegnativo come stacco.
«Il set è stressante, una tournée teatrale mi permette di viaggiare, vedere città che non conosco di giorno e la sera salire sul palcoscenico, dove mi sento a casa. È il luogo che mi calma e alla fine aspetto in camerino chiunque abbia voglia di farmi un saluto, di commentare lo spettacolo. Del resto, ho iniziato con il teatro».
Oltre ad aver scritto e diretto varie commedie, ha girato il documentario Luigi Proietti detto Gigi. Un omaggio a quello che considera il suo maestro?
«Ho avuto la fortuna di lavorare 2 anni e mezzo nella serie tv Avvocato Porta e stare accanto a un genio come Proietti mi ha fatto capire che il mio sogno si stava realizzando. In alcune cose mi sento simile, nella maniacalità per esempio. E anche come persona. Come diceva Gigi, non ho la tempra del divo. Il successo mi è arrivato con gli antieroi e va bene così. Per carattere non mi beo della popolarità e neppure mi butto giù, cerco di prenderla con leggerezza e distacco. Forse perché l’ondata di affetto è arrivata dopo i 40 anni, quando hai più strumenti per capire che non è quella la vera meta».
Da ragazzo scrisse in un curriculum di aver frequentato la scuola di recitazione “La Scaletta” anche se non era vero.
«E ora sono loro a mettermi tra gli studenti di maggior successo… Siamo 1 a 1, e va bene così. Fa tutto parte di questo strano mestiere».