Anna Magnani sullo schermo non recitava, viveva
Si racconta che quando nel 1945 uscì Roma città aperta di Roberto Rossellini, Pier Paolo Pasolini fece 40 chilometri in bicicletta da Casarsa a Udine per vederlo. E la rincorsa disperata di Pina dietro il camion dei tedeschi, al grido di «Francesco! Francesco!», prima della scarica di mitra che l’avrebbe stesa sul selciato, divenne «l’espressione della lotta antifascista in modo più diretto ed emblematico di migliaia di pagine e documenti storici». Questa morte, così partecipata, così intensa, è destinata a vivere per sempre nella storia del cinema e a 50 anni dalla morte di Anna Magnani, avvenuta a Roma il 26 settembre del 1973, in questi tempi cinici e distratti, continua a colpirci al cuore. «La Magnani sullo schermo non recitava, viveva. O, se recitava, recitava se stessa», le sue gioie e i suoi dolori, l’eterna condizione dell’essere umano esposto alle intemperie del destino, cui opporre una fiera, feroce resistenza. Una voce antica e mai addomesticata, anche nella risata che fa da controcanto al lamento. O nella sua faccia bellissima e imperfetta. O in certi suoi gesti: «Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le zinne, la sua testa scapijata, il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto», come scriveva Pasolini.
Gli inizi con il teatro e l’avanspettacolo
La leggenda popolare vuole che Anna Magnani sia di origine egiziana, nata ad Alessandria d’Egitto. Nannarella, in realtà, è romana, romanissima d’origine, nativa a detta sua di porta Pia: «In Egitto mia madre ci andò dopo che m’ebbe avuta. Aveva diciott’anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo. Così andò in Egitto, io rimasi con la nonna, qui a Roma». Studia all’Accademia di Santa Cecilia per otto anni pianoforte (una vera passione). E sarà proprio lì che incontrerà la sua strada: l’Accademia e la scuola di recitazione Eleonora Duse sono infatti nello stesso edificio e Nannarella, su e giù per quelle scale, si imbatte nel grande Paolo Stoppa. È lui che la invoglia a tentare la grande avventura e Anna si iscrive scoprendo «che non ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per questa lacrima, ho implorato questa carezza». Prima il teatro, l’avanspettacolo, anni faticosi di tournée come attrice comica. Ma la svolta è dietro l’angolo.
I grandi amori di Anna Magnani
A 26 anni incontra il regista Goffredo Alessandrini: lui la scoraggia a fare cinema perché «Hai una faccia poco fotogenica» (si vedrà quanto poco avesse ragione). Lei incomincia a fare particine, ma si logora di rabbia e gelosia per i suoi veri o presunti tradimenti. Il matrimonio durerà sette anni e Anna dirà: «Lo sposai che ero una ragazzina e finché fui sua moglie ebbi più corna in testa di un cesto di lumache». Anna ama senza freni, è drammatica, dispotica, gelosa, fa scenate in pubblico, è rabbiosa ma anche generosa come nessuna altra donna. Con Goffredo, alla fine, quando lui sarà vecchio, solo e squattrinato, gli verserà segretamente un assegno di 130.000 lire anche dopo la sentenza di divorzio. Con il suo secondo grande amore, l’attore Massimo Serato, di nove anni più giovane, la storia si ripete: passione, gelosia e piazzate furibonde. Ma questa volta dalla loro unione nasce Luca, il figlio tanto desiderato da Anna, ignara del destino che l’attende: a due anni il bambino si ammala di poliomielite e Anna dovrà separarsi da lui per mandarlo in Svizzera.
Roma città aperta
Sono momenti terribili eppure 24 ore dopo aver saputo che forse Luca non camminerà più, si presenta sul set di un film di cui sono appena iniziate le riprese: Roma città aperta. È il gennaio del 1944 e Anna entra di prepotenza nel cinema imponendo un nuovo modello di donna: bruna, non bella, non giovane, dai capelli scarmigliati, le occhiaie profonde, lo sguardo intenso. Il film la consegna alla storia, ma le fa anche conoscere Roberto Rossellini, terzo ed ultimo grandissimo amore della sua vita. Un amore tumultuoso e appassionato che finirà dopo quattro anni sempre per gli scherzi di un destino che non le concede tregua. In un oscuro cinema di Hollywood, Ingrid Bergman vede Roma città aperta e non esita un istante. Prende carta e penna e scrive al regista italiano la famosa lettera: «Caro signor Rossellini ho visto i suoi film e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il tedesco, non si fa quasi capire in francese e in italiano sa dire solo “ti amo” sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei».
I suoi film
La lettera approda nelle mani di Rossellini il giorno del suo 42esimo compleanno, l’8 maggio del 1948, e per Nannarella è l’inizio della fine. Saranno il teatro e il cinema la sua salvezza, Anna lavora senza interruzioni con i più grandi: L’onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa con cui vince il Nastro d’argento, Bellissima (1951) di Luchino Visconti, La Carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir, La rosa tatuata (1955) scritto da Tennessee Williams apposta per lei. Nella parte di Serafina, vedova italo americana che si innamora di un camionista siciliano, vince l’Oscar. E poi Pelle di serpente (1960) di Sidney Lumet accanto a Marlon Brando, Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini. Ma forse dei suoi 47 film quello in cui Nannarella è più se stessa, diretta per la seconda volta da Rossellini, è l’episodio “La voce umana” dal testo di Jean Cocteau, nel film L’amore (1948), un suo lungo monologo al telefono con l’uomo amato deciso a lasciarla. «Anna non recitava, viveva. O se recitava, recitava se stessa». Nulla di più vero.