La prima volta che ho sentito parlare di Sarah Scazzi ero a casa di mia nonna, a Taranto. Un telegiornale locale raccontava della scomparsa di una 15enne bionda ad Avetrana, un paesino a poco più di mezz’ora di macchina da dove mi stavo godendo la fine dell’estate 2010. Mai avrei pensato che quella storia si sarebbe incastrata nella mia memoria per sempre. Eppure è così che funziona con i più drammatici – e mediatici – casi di cronaca nera che scandiscono i nostri tempi.
Perché siamo attratti dal true crime
Quelle vicende che in qualche modo si infilano nella nostra memoria, nei nostri pensieri, e non li lasciano più. Storie di cui sentiamo parlare per mesi, addirittura per anni, e che alla fine non ci sembrano più appartenere alla realtà, ma si legano a una “terra di mezzo” in cui ciò che è accaduto si confonde con i nostri ricordi, con chi eravamo quando il fatto accadde e chi siamo adesso, ma anche con il racconto mediatico che si sovrappone – e spesso annulla – la narrazione ufficiale.
Il true crime crea un cortocircuito
Con il tempo nasce la familiarità. Ed è così che Olindo Romano e Rosa Bazzi diventano Olindo e Rosa. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono Amanda (che a marzo pubblicherà l’ennesimo libro sulla vicenda, Free) e Raffaele. Yara Gambirasio diviene semplicemente Yara. E le persone che ruotano intorno a Sarah Scazzi perdono il cognome, per entrare nella memoria collettiva con il ruolo che rivestivano nei confronti della piccola vittima: lo zio Michele (Misseri), la cugina Sabrina (Misseri), la zia Cosima (Serrano), e poi il fratello Claudio (Scazzi) e la mamma Concetta (Serrano). In questa familiarità con persone che non conosciamo, e che a guardare bene mai conosceremo, si viene a creare un cortocircuito che ci rende spettatori dei drammi degli altri, che ci spinge a improvvisarci detective sulla scena del crimine o avvocati di fronte alle sentenze.
Il successo del true crime
È per questo che il true crime, forse, ha così successo. Ci guida altrove. Ci rassicura che mai ci accadrà quello che stiamo esaminando. Ci convince che la nostra vita sia la migliore delle alternative possibili. E soprattutto ci tranquillizza: la bestia che è in noi – perché tutti abbiamo una bestia nel fondo del cuore, magari addomesticata, magari addormentata, magari ben nascosta – non farà mai una cosa del genere. Agli altri, ma soprattutto a noi stessi. Di questo, fra qualunquismo e morbosa attrazione verso la sofferenza, rischiando la romanticizzazione del crimine e la mitizzazione dell’assassino, si nutrono i podcast – che proliferano da quando in principio Pablo Trincia con Veleno e Stefano Nazzi con Indagini si infilarono nei meandri oscuri del presente – e le serie televisive. Portare sul piccolo schermo queste dolorose storie vere è sempre un’ambizione complessa, perché trasformare in attori e copioni la realtà – che è densa di non detti, di segreti, di rabbia e dolcezze – si fa sfida.
Il libro sul caso di Avetrana
Ed è così che raccontare la scomparsa e la tragica morte di Sarah Scazzi – fatti che hanno alimentato in me una duratura ossessione – si è rivelato un gioco d’equilibrio che dopo anni di lavoro è diventato un libro, scritto con Carmine Gazzanni: Sarah – La ragazza di Avetrana (Fandango). Un libro che metteva insieme la narrazione di quei luoghi che avevano determinato la mia infanzia e l’analisi puntuale dei documenti: migliaia e migliaia di pagine per ricostruire le vite dei coinvolti, con una dovizia di particolari e voragini nere dentro cui difficilmente mi pareva di riscontrare quel concetto nobile che è la giustizia.
Le serie tv true crime ispirate al caso Avetrana
L’ossessione nei confronti della tragedia di Avetrana è proseguita con una serie doc per Sky e, adesso, con la serie Avetrana – Qui non è Hollywood su Disney+. Il sindaco del paese ha presentato ricorso, che la magistratura di Taranto ha accolto, contro il titolo della serie che getta discredito sull’intera comunità di Avetrana, e ne ha chiesto la sospensione immediata.
In ogni caso, il dilemma che sempre si presenta in questi casi – quando cioè si è chiamati a dare un volto alternativo a una vicenda nota, che spesso ha acceso gli animi e il dibattito, marchiando a fuoco l’opinione pubblica – è quello di aderire o meno alla storia. Quanto è giusto essere fedeli ai documenti? Quanto è necessario che la fantasia trovi la sua forma e l’immaginazione pieghi gli eventi per renderli più evidenti? Esiste una responsabilità nei confronti dei protagonisti? E degli spettatori? Ma soprattutto: qual è la responsabilità verso le vittime?
Il true crime negli Stati Uniti
Sono domande complesse, a cui le proposte televisive degli ultimi mesi rispondono in modo differente. I tentativi più originali e felici arrivano dagli Stati Uniti, dove il true crime si è affermato già da oltre 10 anni e ha proposto al pubblico analisi di vicende sconvolgenti ma dimenticate. Alcuni dei più gloriosi esempi, entrambi su Netflix, firmati dai medesimi autori Ryan Murphy e Ian Brennan, sono Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, incentrato sulla storia del “cannibale di Milwaukee” responsabile di 17 omicidi tra il 1978 e il 1991, e Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menendez, la miniserie che racconta la storia dei due fratelli californiani condannati nel 1996 per il brutale assassinio dei genitori.
Il true crime italiano
Nel nostro Paese, invece, la narrazione si è spostata dai carnefici alle vittime, giovanissime. È questo il caso della bella serie di Marco Pontecorvo Per Elisa, che con tatto ha raccontato in sei puntate la scomparsa di Elisa Claps da Potenza il 12 settembre 1996. O del film Yara di Marco Tullio Giordana, sulla vicenda della piccola ginnasta di Brembate di Sopra. Ma forse il tentativo più riuscito – sempre di Pontecorvo, su Sky – è Alfredino, che ricostruisce la tragedia di Alfredo Rampi, il bambino di Vermicino che cadde in un pozzo artesiano e qui morì il 10 giugno 1981 dopo tre giorni di agonia punteggiati da vani tentativi di salvataggio. A riprendere la vicenda, con la speranza di “raccontare un fatto di vita”, fu la Rai che trasmise ininterrottamente dal posto per 18 ore, arrivando a catalizzare davanti al piccolo schermo 21 milioni di telespettatori. Fu la prima volta nella storia italiana che le telecamere affrontavano un evento del genere e, per molti, in quel momento vide la luce “la televisione del dolore”. E forse è proprio lì che la cronaca nera si è infiltrata nelle nostre giornate. E sono nati i podcast. E sono nate le serie.
Nella mente del serial killer: il primo libro di Max Proietti
«Entrare nei panni dell’assassino. Vestirsi come chi compie del male. Immedesimarsi cercando di capire la psicologia del violento. Impegnarsi per tradurre il modo di ragionare e di agire di chi compie azioni efferate». È questo uno degli obiettivi di Gli occhi del male (Electa Young), il primo libro di Max Proietti, già laureato in Scienze e tecniche psicologiche, abile narratore di true crime da migliaia di follower sul web. «Nel libro racconto storie esemplari, da Donato Bilancia alle Bestie di Satana, per spiegare la natura dei serial killer» dice. «Voglio sviscerare quello che tanto ci respinge, e allo stesso tempo ci attrae: il male».