«Alice e io ci vogliamo bene. Per questo ci stiamo lasciando. Lo so, è un paradosso, ma è così che finiscono i matrimoni. Per quanto illogico sembri, sono i difetti che tengono in vita la coppie».
Diego De Silva: l’amore è fatto da due storie
Diego De Silva dice che l’amore non è una storia ma due, ed è lo squilibrio narrativo che rende scellerato il patto che regola la vita di coppia. Finché la versione è la stessa, il racconto regge e i matrimoni pure, ma perdere l’allineamento è un attimo e raramente ci si fa caso. Lo capisci solo dopo, quando, anche a volerlo, i pezzi non si incastrano più e le parole perdono il senso che avevano all’inizio. Ed è lì, in quel tempo indefinito, che l’amore si dissolve lasciando spazio al linguaggio giuridico, agli atti di citazione, alla dissezione anatomica della vita di fronte ai giudici. Al racconto di come rendite sentimentali che sembravano inesauribili vengano sperperate nell’incoscienza dei protagonisti, Diego De Silva ha dedicato il suo ultimo romanzo, I titoli di coda di una vita insieme, in libreria dal 21 settembre per Einaudi: la storia di Fosco e Alice e della fine del loro matrimonio.
A 60 anni senti che hai meno tempo
«Sentivo il bisogno di scrivere un libro che affrontasse la sintassi dell’addio. A 60 anni, inizio a sentire il conto alla rovescia, ho perso l’enorme illusione che avevo da giovane, quando sembrava che il tempo fosse infinito e allora lo si poteva dilapidare. Oggi, senza drammi ma essendo passato attraverso due tumori, ho cominciato a chiedermi quanto me ne resta. E allora, il tema della fine è diventato un’urgenza. Perché uno scrittore affina il suo linguaggio con il vivere: la vita ti suggerisce le parole. E le cose che viviamo hanno un senso solo se riusciamo a esprimerle».
Intervista a Diego De Silva
L’amore ha una data di scadenza?
«No. L’amore funziona finché riusciamo a raccontarci la stessa storia, quando ognuno riesce a prevedere i desideri dell’altro. Funziona quando ci si diverte: ridere insieme è una grande benzina erotica».
E poi?
«E poi succede che ognuno comincia a raccontarsi la sua storia, magari senza smettere di amare l’altro. Lì inizia la distanza, nasce un imbarazzo che soffoca la sincerità non nel dire, ma nel sentire ciò che sente l’altro».
Voler entrare nella mente del partner è rischioso, non trova?
«Certo. Ma nell’amore noi ci giochiamo la vita. L’amore non è un bell’affare, non è un’obbligazione come molti idioti pensano: è un’azione che dipende dall’andamento del mercato. E va bene così. Se vuoi il rendimento, apri un negozio. L’amore è bello perché è appeso a un filo, come la vita. Perché è imprevedibile e può finire. La sua massima espressione sta nel riconoscere la libertà dell’altro di dire “Non ti amo più”».
L’amore tra Alice e Fosco, infatti, finisce. C’è un modo giusto e uno sbagliato per dirsi addio?
«No. Fosco, pur subendo la decisione di Alice, non vuole banalizzare la sua storia nel linguaggio freddo di un atto giuridico. E allora va oltre, dice: non ci serve il tribunale, se vuoi me ne vado domani mattina. Lei, invece, non accetta la frustrazione di una separazione consensuale. Dice: non ci pensare, sei mio marito, se ci dobbiamo separare almeno litighiamo. Tra i due, la romantica è lei».
Alice, però, è anche quella che apre la crisi. A leggere il suo libro e un po’ anche a guardare la vita, sembra che siano sempre le donne a pronunciare la parola fine.
«A me è successo quasi sempre così e questo è un fatto anche un po’ generazionale. I maschi della mia età hanno sempre vissuto un rapporto di inferiorità verso il genere femminile: siamo cresciuti con la sensazione di essere miracolati se le ragazze ci degnavano. La donna era l’extraterrestre verso cui ci sentivamo in un’inferiorità perenne, mista a soggezione e a un considerevole disgusto per noi stessi. Siamo rimasti soggiogati. Come Fosco che, pur essendo un uomo consapevole di sé, ha una forma di debolezza nei confronti di Alice».
Eppure accetta di perderla.
«Per paradossale che possa sembrare, le cose che abbiamo veramente non sono quelle che conserviamo. Quello che conta non è far durare le cose, ma averle vissute. È un pensiero che ho, ricorrente, e che forse nasce dalla malattia. Ho capito che cosa intendeva Franz Werfel quando diceva che l’unico vero possesso è nelle cose che hai perduto».
Prima di essere scrittore, ha fatto l’avvocato. E da Malinconico in giù, molti dei suoi personaggi fanno quel mestiere. Che parte hanno i suoi ex colleghi nella fine di un amore?
«Il problema non sono gli avvocati, ma lo strumento che hanno a disposizione, cioè la legge, che è misera di fronte alla vita. La legge fa quello che può e lo fa male. Il tentativo di conciliazione, per esempio, che senso ha? Porti i dolori della tua vita davanti a un magistrato che non sa nemmeno chi sei. Capirei di più un prete, che almeno fa il mestiere suo».
Quando ci si lascia, chi sono i più cattivi?
«Siamo tutti diversamente cattivi. Magari alcuni diventano più spietati, più volgari, ma anche quelle sono cose false, sono stracci. C’è bisogno anche di quello, degli stracci che volano, per poterci caricare di sentimenti negativi e prepararci al distacco e alla sofferenza che ci aspetta. Sono meccanismi molto infantili e nevrotici ma utili. Infatti, a distanza di tempo, non c’è insulto su cui non si possa ridere».
All’inizio del libro scrive che ci si lascia perché ci si vuole bene. Lo pensa davvero?
«Sì. Quando l’amore perde la sua capacità di sorprendere, di accendere un lampo di curiosità, la gioia di vedersi, il bisogno di sentire la voce dell’altro, tutto si banalizza nella neutralità inoffensiva del volersi bene. Volersi bene però non basta: l’amore è più avido. Non è un bel sentimento: è rapace, predatore, non ha padroni né logica, se ne fotte della realtà, dei valori, dell’amicizia e della pace. Però la sua grandezza sta proprio in questo. Sottoporlo alla gerarchia dei valori che contano è impensabile. Lascia cadaveri dove passa».
A parte i cadaveri, che cosa lascia quando finisce?
«Un grande tirocinio di sofferenza, la forma di una solitudine che riempie di incertezze. Resta la sensazione di un abbandono esistenziale molto grande. Certo, si maturano delle cose, se ne guadagnano delle altre. Ma si rimane nudi: gli occhi di chi ti ama ti sfigurano per definizione e ti allontanano dalla vera percezione di te. Quando l’amore finisce, perdi quel filtro, e devi uscire allo scoperto per quello che sei. E questo, sì, è tremendo».
I titoli di coda di una vita insieme è l’ultimo romanzo di Diego De Silva (in libreria dal 21 settembre per Einaudi). Attraverso le voci di Fosco e Alice, l’autore racconta il groviglio di sentimenti che accompagnala fine di un amore.