Nella casa che da poco condivide col compagno, arredata dai mobili usati acquistati coi primi stipendi, Maria Sole ha portato solo una grande valigia rosa: è sgangherata, ma da quando – alla morte della madre, consumata dalla tossicodipendenza – è stata affidata ai servizi sociali, per anni vi ha trasportato tutto il suo mondo, tra fughe e traslochi, da una famiglia affidataria all’ennesima comunità.
La serie tv sulle case famiglia
«La società si accorge di questi ragazzi nel momento in cui rompono le scatole, fanno sentire in colpa qualcuno, lo fanno sentire sbagliato» recita il claim all’inizio di ogni puntata di Zona Protetta: la docuserie in 10 episodi, disponibile su RaiPlay e in onda su Rai 3 fino al 4 agosto, insegue le vite di una dozzina di ragazzi e ragazze che hanno trascorso l’adolescenza in una manciata di case famiglia per minori. È la zona protetta del titolo, in cui tutti alla fine hanno trovato una relativa stabilità, affetti e una possibilità di riscatto. «Quando arrivano in comunità» prosegue il claim «la parte più difficile è accompagnarli a reggere il dolore che gli hanno dato gli adulti».
Filmmaker giovani per raccontare le case famiglia
«Abbiamo pensato che queste storie dovessero essere raccontate» spiega Daniele Vicari, che con Andrea Porporati e Francesca Zanza ha prodotto la serie, «ma che a farlo dovessero essere giovani cineasti coetanei dei ragazzi. Noi adulti su queste cose siamo poco lucidi, spesso mostriamo un coinvolgimento un po’ paternalistico, mentre loro rompono certe barriere immediatamente». Regista e direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté, Vicari, con Porporati che lì insegna regia, ha affidato quel lavoro delicato a una squadra di filmmaker da poco diplomati: «Si sono addentrati in punta di piedi in situazioni molto complesse e hanno sviluppato una relazione determinante perché i protagonisti si raccontassero senza paura di un giudizio esterno».
I protagonisti della serie su RaiPlay
Grazie alla fiducia che i giovani registi hanno saputo conquistarsi all’interno di queste strutture – le cui esperienze di psicoterapia e recupero s’ispirano agli studi di Marco Lombardo Radice e sono supervisionate da Tito Baldini, professionista con una grande esperienza di “ragazzi al limite” – oltre a Maria Sole la ribelle, impariamo a conoscere (e ad amare follemente) Vanessa, la cui mamma, scampata alla violenza domestica nel campo rom, è sparita nel nulla; la dolce Blessing, che convoglia paura e rabbia nelle canzoni che scrive; l’ambizioso Mahmoud, arrivato da solo a 13 anni dall’Egitto. E ancora Khansaa, Nicoletta, Andrea, le sorelle Marta e Sharon, le amiche Diana e Pia e infine Youssef, strappato da un educatore alle risse di strada e approdato sul podio dei campionati nazionali di boxe under 22.
Nelle case famiglia per essere protetti
Al centro di ogni racconto, in un giro d’Italia tra Ancona e Bolzano, il buco nero delle famiglie d’origine, il trauma dell’abbandono e della violenza, la fatica di trovare il proprio posto nelle tante strutture d’accoglienza, tra fughe, crisi, conflitti anche durissimi con compagni, educatori e psicologi, che alla fine diventano famiglie, legami forti. Fino all’ultima tappa: il percorso tortuoso verso l’autonomia e il mondo fuori dalla zona protetta. «Questi ragazzi in comunità ci arrivano principalmente attraverso il Tribunale dei minorenni. Di fronte a situazioni di possibile pregiudizio nell’ambiente domestico, vengono allontanati dalle famiglie come forma di tutela» spiega Vissia Carnevali, psicologa e psicoterapeuta che è stata referente per l’area clinica in una delle comunità coinvolte. «Ci sono anche giovanissimi autori di reato, sottoposti all’istituzione della messa alla prova, e minori stranieri non accompagnati o in dimissione dai reparti di neuropsichiatria».
Il dolore dei ragazzi delle case famiglia
I progetti si modulano in base ai casi, spiega Carnevali «ma, alla fine, il bisogno che li accomuna è quello di trovare adulti capaci di reggere il loro dolore, di decodificare le loro azioni auto o etero distruttive, i silenzi, le fughe, che sono in realtà un tentativo di sopravvivere a un mondo adulto che non sa stare accanto a quel dolore che spaventa i ragazzi stessi: mostrargli che è possibile, senza farsi travolgere, è come aprire una possibilità alla loro stessa sopravvivenza. Hanno anche bisogno di vedere che gli adulti sbagliano, pure noi educatori, ma soprattutto che è possibile riparare: è una tappa fondamentale per i cittadini che diventeranno».
Ciò che davvero stupisce, seguendo il filo sottile delle 12 storie, è la grande capacità dei protagonisti di scandagliare e mettere in fila sentimenti e ricordi dolorosi, ragioni e moventi inconsci. «Qui imparano con sofferenza e fatica – e noi con loro – che il dolore si può dire» conferma Carnevali. «Veicolato attraverso le parole, può diventare una delle risorse più potenti, quella che ci permette di entrare in contatto con la fragilità dell’altro. Per noi è un carico pesante: per gestirlo è cruciale il gruppo dei colleghi, il confronto continuo con le supervisioni».
Basta poco per recuperare terreno
«Abbiamo voluto inserire nel racconto anche gli operatori» precisa Daniele Vicari «perché se questi ragazzi acquisiscono strumenti e si autodeterminano, è grazie a loro. Per definire questo processo non so trovare una parola migliore di libertà». La serie, spiega il regista, ci mostra «che non c’è nessun essere umano che non abbia la possibilità di uscire dalla propria condizione. Basta poco, un poco “di qualità”, per permettere a persone ritenute perdute di recuperare terreno e addirittura rilanciare. Per dimostrarlo, cineasti e testimoni di questo piccolo lavoro per la tv hanno saputo costruire una comunità: dal punto di vista di chi fa cinema, è un insegnamento dal quale non si torna indietro; da quello delle persone raccontate, una grande opportunità per dire a tutti chi sono. Queste energie toccheranno il cuore del pubblico».