II primo romanzo di Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, è stato il simbolo dei giovani anni ’90. Adesso, in Due, l’autore bolognese riprende a raccontare di Alex e Aidi lì dove li avevamo lasciati: giovani e innamorati nell’estate del 1992. Ma davanti a una nuova domanda: come resistere alla lontananza? E ancora ci rispecchiamo in loro. A qualsiasi età

Due (HarperCollins) è il nuovo romanzo di Enrico Brizzi, che ha deciso di tornare nella Bologna del 1992 a ricucire i fili di una storia di ragazzi. Sono passati 30 anni dalla pubblicazione di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, dall’adolescenza di Alex, di Aidi e dei loro scombinati compagni di viaggio. 30 anni dal loro amore acerbo, unico e diverso ma così simile ai primi amori di tutti noi. 30 anni dalle loro parole e dalle loro canzoni, che erano pure le nostre. Tuttavia, mentre per gli altri il tempo passava, i protagonisti di quella storia sono rimasti lì dove li avevamo lasciati, immersi nello straziante fulgore di un inizio estate. Lui è sdraiato sul letto, devastato dalla nostalgia, a rimuginare sul senso di una vita svuotata; lei è su un volo verso la Pennsylvania, dove trascorrerà i successivi 12 mesi. La storia comincia di Due comincia così.

Enrico Brizzi: Due nasce da un’urgenza narrativa

Perché, dopo tanti anni, ha avuto voglia di scrivere il seguito di Jack Frusciante?

«È stato tutto molto inatteso e naturale. A novembre dell’anno scorso, per la prima volta, ho letto Jack Frusciante come se fosse stato il romanzo di qualcun altro. In passato mi era capitato di fare letture pubbliche o di aprire il libro alla ricerca di passi specifici, ma non lo avevo mai affrontato per intero. L’ho fatto in segreto, come se fosse un atto vergognoso o illegale. Temevo che avrei avuto dei retropensieri – nostalgia o pentimento – e invece, appena chiuso il libro, ho aperto il computer e mi sono messo a scrivere. È stata un’urgenza che mi ha fatto quasi paura».

Alex e gli altri non sono invecchiati. Ha resistito alla tentazione di scaraventarli ai giorni nostri per vedere come sono diventati?

«I presupposti di Jack Frusciante sono l’estrema giovinezza dei personaggi, senza la quale la storia non starebbe in piedi, e la voce forte di un narratore onnisciente, partecipe e ignoto. Non mi è mai passato per la testa di raccontare la storia di personaggi 40-50enni, perché il patto narrativo funziona restando fedeli ai presupposti. A differenza delle persone in carne e ossa, i personaggi delle storie godono di uno statuto speciale che consente loro dei superpoteri tra cui il non invecchiare. Alex e Aidi sono due ragazzi e lo rimarranno per sempre».

La scrittura ha a che fare con il tempo e la memoria

Con Jack Frusciante raccontava la contemporaneità. Con Due ha fatto un viaggio indietro nel tempo. È stato difficile abitare di nuovo il 1992?

«Ho interrogato la mia memoria e, per alcuni dettagli, ho fatto qualche controllo. Alla fine scrivere ha qualcosa in comune con la paternità. Io ho quattro figlie. Credo che la dote principale di narratori e genitori debba essere la memoria, altrimenti si finisce per idealizzare il passato e per recriminare sul presente».

Alex potrebbe essere un 18enne di oggi?

«Quando racconto in pubblico di Jack Frusciante, i giovani la vedono come una storia in costume e non si capacitano che, per telefonare, servissero veramente un gettone e una cabina. Per loro è un mondo esotico, un po’ come quello di Stranger Things. Colgono però l’aspetto più profondo. Nel primo libro Alex scopriva un sentimento nuovo: fino ad allora pensava di bastarsi e all’improvviso non poteva fare a meno di un’altra persona. Questo era il concetto alla base di Jack Frusciante. In Due l’interrogativo è come sopravvivere alla distanza. Come tutelare un sentimento nella lontananza, quando scrivere è faticoso e telefonarsi impossibile? Secondo le mie figlie, la faccenda non è molto cambiata perché anche oggi, nonostante WhatsApp e Instagram, se una persona ti manca puoi mandarle tutti i messaggi che vuoi, ma la nostalgia resta».

Due di Enrico Brizzi è un romanzo corale e intergenerazionale

In Due, oltre alle voci del narratore e di Alex, c’è anche quella di Aidi che si racconta dagli Usa.

«A un tratto mi è venuto spontaneo scrivere con la voce di lei. Il libro si chiama Due anche per questo, non solo perché è la seconda parte di una storia. La voce di Aidi è più matura perché tra i 16 e i 18 si cambia moltissimo, si fa il giro del mondo due volte. È solo dopo che tutto diventa uguale a se stesso».

In Due Alex ammette: «La missione dei genitori è educare all’indipendenza, mica assecondare ogni ghiribizzo della progenie». C’è maggiore empatia, anche da parte sua, verso il padre e la madre del protagonista?

«Ho voluto raccontare una stagione in cui, per la prima volta, i figli sono assaliti dal dubbio che i genitori non siano poi così cattivi e che abbiano avuto 18 anni anche loro. Mi sono ritrovato a sorridere ai genitori di Alex. Da ragazzo pensavi “Io non diventerò mai come loro” e adesso ti rendi conto che, a conti fatti, meglio essere diventato così che non la belva del rock’n’roll incapace di star dietro ai figli. Provo tuttavia un senso di salvezza nel non essermi trasformato in Furio di Carlo Verdone, preda dell’ansia e privo di passioni».

A quali lettori si rivolge Due?

«In passato, con Jack Frusciante, mi è capitato di vedere insieme una madre e una figlia o un padre e un figlio. Trovo molto stimolante poter parlare a due generazioni in contemporanea».

Enrico Brizzi, tra scrittura e musica

La musica ha un ruolo fondamentale nel racconto in sé e nella sua scrittura.

«Di solito, quando scrivo, ascolto musica sia per puro piacere estetico sia perché credo che, se devi raccontare una scena d’azione, venga meglio ascoltando un pezzo bello tirato e viceversa. Ascolto di tutto – strumentale, classica, opera, straniera – tranne i cantautori italiani, perché le parole mi confondono. All’età di Alex, in quegli anni, la musica definiva l’identità, insieme ai vestiti e al taglio di capelli. C’erano i metallari, i dark, i punk, ed era fondamentale appartenere a una sottocultura che si identificava con la musica. Oggi i codici identitari sono molto meno netti».

Per i 30 anni di Jack Frusciante è in tour con uno spettacolo di parole e musica.

«Si tratta di un ritorno alle origini. Quando uscì il libro mi sconvolse l’idea di fare delle presentazioni per cui non mi sentivo preparato. Così chiamai gli amici con cui suonavo, riadattai il testo alla musica e facemmo una versione rock and roll del cantastorie. Quando racconto al microfono, per esempio di fronte a 18.000 scout a Verona o in un locale alternativo nelle Marche, si crea un’atmosfera speciale, perché l’istinto ad ascoltare una storia è insito in ognuno di noi, da sempre. La presenza della musica – la stessa a cui pensavo quando scrivevo – consente di riportare la mia storia a casa».