Racconta lo scontro tra bracconieri e abitanti del luogo
Un uomo pagaia silenzioso sulle acque limacciose, ricorda il vagare sul fiume del capitano Kurtz di Cuore di tenebra. Ha il volto intenso, l’espressione burbera, un lampo di paura negli occhi. È Alessandro Borghi, protagonista insieme a Luigi Lo Cascio di Delta, ora nelle sale, film che racconta lo scontro tra i bracconieri e gli abitanti del delta del Po. Borghi è Elia, pescatore di frodo che ha trovato famiglia in una comunità fuorilegge che si è spostata dal Danubio su queste sponde; Lo Cascio è Osso, idealista che vuole salvare il fiume dai predatori e dai veleni delle industrie che hanno ucciso suo padre. Sarà per le acque apparentemente placide ma misteriose, per la gente chiusa, per la sensazione di essere in un luogo al confine tra la terra e il mare, ma non posso che essere d’accordo con il regista Michele Vannucci quando dice: «Delta è un western fluviale, un conflitto contemporaneo tra comunità di indigeni e forestieri in lotta lungo la frontiera».
Mostra un luogo affascinante
Il delta del Po è un luogo particolare, affascinante. «È un punto in cui l’Italia “cresce”, letteralmente, perché ogni anno i sedimenti del fiume arrivano al mare e creano delle isole, i cosiddetti scanni, formati da sabbia ammucchiata» continua Vannucci. «Adria, per esempio, la città che dà il nome all’Adriatico, è a 30 chilometri dalla costa, mentre durante l’impero romano si trovava sul mare». Oggi il delta è una riserva di biosfera, un mosaico di ambienti diversi che copre 9 comuni in Veneto e 6 in Emilia-Romagna. Ospita piante, uccelli, pesci e non è raro vedere i fenicotteri rosa (come in una scena del film). Ma non sempre è stato così. «Le terre che si sono venute a formare nel tempo sono in “terapia intensiva”» dice il regista. Terre fragili, da proteggere.
«Nel dopoguerra sono state molto sfruttate per estrarne metalli e, al largo, gas». Il risultato sono avvallamenti anche di 3-4 metri rispetto alla linea di costa, buchi nell’acqua creati dal fenomeno della subsidenza, «come nella Sacca degli Scardovari dove ci sono gli allevamenti di cozze». Uno sfruttamento che in passato ha creato enormi danni, basti pensare all’alluvione del Polesine nel 1951 quando il Po ha rotto gli argini, e migliaia di persone si sono trovate senza casa, sfollate in altre regioni. «Il mare entrò sommergendo la terra. Durante i sopralluoghi per il film ho visto molti zuccherifici abbandonati. La gente del luogo mi ha spiegato che per dissalare la terra avevano iniziato a coltivare la barbabietola da zucchero».
Delta ci fa conoscere la vita dei pescatori di frodo
Più ti addentri nel delta, meno avverti la traccia dell’uomo. «Ed è questo che lo rende unico» dice Vannucci. «È sempre stata zona di fuggitivi perché insalubre. Chioggia, per esempio, nasce come luogo di banditi che scappavano da Venezia. Ed è sul nostro delta che si sono rifugiati i bracconieri che venivano dalla Romania quando nel 2007 il Paese è entrato nell’Unione europea». All’epoca il delta del Danubio diventò patrimonio Unesco, e da qui nasce la storia dei pescatori di frodo di cui racconta Vannucci nel film. «Quella era una terra misteriosa, il cuore di tenebra della Romania». Ci vivevano i Lipoveni, una minoranza russa ortodossa: usavano metodi di pesca illegali, che lo Stato non riusciva a controllare. «Quando però è intervenuto un corpo speciale della polizia, c’è stata una diaspora di questa comunità. Alcune famiglie sono venute sul Po. Pescavano e rivendevano tutto a Bucarest. Nel 2012 ci sono stati i primi avvistamenti delle guardie ittiche ma per anni nessuno se n’è accorto, nemmeno gli abitanti del fiume e i pescatori stessi». Il delta è una zona di confine. «Quello del Danubio, dove sono stato per preparare il film, si può raggiungere solo via mare o via fiume, 300 chilometri da fare in barca. Va da sé che sono terre lontane, in cui ci si sente abbandonati e si crea un’atmosfera western. Il territorio selvaggio dà spazio a sentimenti selvaggi».
È la narrazione di una terra selvaggia
Nel delta del Po gli orizzonti cambiano. I paesi che trovi lungo il percorso avranno un centinaio d’anni, spiega il regista, sono nati con la bonifica del ventennio fascista. «Cercavo un immaginario nuovo, libero, da portare nel cinema. Per raccontare la frontiera oggi». Non più quella del mare e del Sud che, dice Vannucci, è al centro da molti anni della rappresentazione cinematografica. Uno sguardo nuovo anche a livello drammaturgico. «C’è un uomo, Osso, nato in quel territorio, che vive per difendere il fiume e la sua identità familiare, e uno, Elia, che è ritornato per diversi motivi e il fiume lo conosce molto meglio di chi vive a terra, perché ne va della sua sopravvivenza».
È dedicato a chi ama l’ambiente
Ma non ci sono un buono e un cattivo, tiene a precisare Vannucci. Sono come le due sponde del fiume, un duello fra due anime che solleva anche questioni ambientaliste. «Le risposte per portare indietro le lancette dell’orologio che segnano i minuti alla fine del mondo sono così radicali da mettere in crisi il sistema in cui viviamo e sono in pochi quelli che riescono veramente ad accettarle». La storia di Osso è la storia anche di chi scopre qual è il limite da oltrepassare per la difesa dell’ambiente, perché non basta raccogliere i rifiuti che si depositano sulle sponde. Il problema è più ampio e riguarda le disparità fra chi sta bene e chi fa fatica a sopravvivere. «Ma a me non interessava tanto la denuncia, questo è un film sulla ricerca di una casa e di una identità. È un viaggio lungo il fiume in cui i protagonisti si immergono in qualcosa di ignoto. Il racconto della frontiera».