Le chiacchiere con Francesca Tumiati, autrice di Un’allegria di troppo, sono un posto caldo di cui avevo smarrito la strada. Siamo state colleghe, prima di prendere direzioni diverse. Mi bastava alzare lo sguardo oltre il pannello che separava le nostre scrivanie per intercettare la sua complicità eversiva: zampilli di fou rire per svaporare l’ansia, planando sul suo effervescente disincanto. Quando ho letto il titolo del romanzo che ha pubblicato con Feltrinelli ho pensato: è lei, ce l’ha fatta.
Francesca Tumiati: da un memoir sepolto nasce Un’allegria di troppo
Francesca Tumiati, giornalista, scrittrice, osservatrice di stelle, è come la Sherazade delle Mille e una notte che t’incanta con la sua parlantina e intanto spinge più in là l’orlo del precipizio. Il proprio. Il tuo, se serve. Ho sempre sospettato che la pratica dell’astrologia che ora la rende firma di una delle rubriche più seguite, con un’affezionata comunità di follower su Instagram, fosse il più riuscito dei suoi travestimenti: spumeggiante redattrice di moda, signora dei salotti in cachemire bianco-beige, imprendibile seduttrice.
Polvere di stelle negli occhi per dissimulare il male di crescere con una madre inghiottita troppo presto dalla depressione. L’avevo lasciata col bozzolo di quel memoir sulla sua vita accanto a Luisella Fiumi – la sua mamma: giornalista, scrittrice, femminista, suicida a 57 anni – sepolto in un cassetto. «Prima di morire, mio padre (Gaetano Tumiati, anche lui giornalista e scrittore) mi fece promettere di finirlo. Prima ho dovuto ammalarmi, guarire e ritrovare il piacere di scrivere, con la complicità della rubrica sulle stelle».
Francesca Tumiati: così ho incontrato la voce di mia madre
Per quelle capriole sfrenate della vita che ogni narratore prudente riterrebbe implausibili, Un’allegria di troppo esce a poche settimane dalla riedizione di Come donna zero (Neri Pozza), forse il libro più autobiografico e femminista di Luisella Fiumi. «Lo scrisse a 50 anni, la depressione abitava con lei da un po’» ricorda.
«L’ho letto forse per la prima volta. Pensavo che scrivere fosse un modo per starle vicina ancora un po’ e guardare in faccia la verità. Ho capito che invece ci siamo trovate a metà strada: la bambina che non sa le tabelline e la madre-casalinga-riluttante che la sera lancia sconsolata il dado nella pentola. Io che saltello sulle metafore e lei che affonda la lama dell’ironia nella disperazione di non essere stata capita, rispettata nel suo mestiere di giornalista e scrittrice. Due voci che finalmente si parlano».
Una linea femminile familiare
“Hopeless”, senza speranza: così, confessa Francesca, la chiamava sua madre. Osservo che somiglia tanto a quel titolo arreso, Come donna zero. «La linea femminile della famiglia è una catena infinita di zeri, sensi di colpa e balle colossali, raccontate agli altri e a noi stesse. Lei aveva questo ingombrante senso di superiorità – un’amica l’ha definito bene: “sprezzatura” – incompatibile col ruolo di madre e moglie a cui i tempi e la famiglia la relegavano. Non si capacitava del fatto che lasciassi galleggiare la testa altrove e della scuola non me ne fregasse niente, mentre Anna, la mia gemella, era più solida. Una volta mi portò a fare un test, la diagnosi era espressa in un grafico: cerchio piccolo, intelligenza scarsa; cerchio grande, genio. Le mie risposte diedero forma a una specie di Sputnik: picchi di intelligenza e intuizione. Come scrisse mia madre: “Francesca vede con un occhio solo, l’altro lo lascia inerte”».
Francesca Tumiati: con l’allegria ci sono nata
Le chiedo se adottare un profilo basso fosse una strategia per non deludere nessuno. «Se non me stessa» ribatte con amarezza. «Ma puoi sempre fingere. Io ho finto tutto, tranne la scintilla: con quell’allegria ci sono nata, con mia madre l’ho esasperata. Nei momenti di crisi mi chiamava: “Chicca, dimmi la parola magica”. Ho riscaldato le pareti del suo baratro coi miei racconti iperbolici, finché non l’ho lasciata andare: io e mia sorella siamo uscite di casa presto. Lei e mio padre hanno tentato di tutto: elettroshock, cura del sonno, litio.
Lui tornava a casa e non sapeva cosa trovava. Io intanto ero diventata una saltimbanca, menestrella, prestigiatrice di bollicine. Per lei restavo la Chicca cinciallegra: “Vieni qua, demente, pezzente” mi diceva. Sul “demente” soprassedevo. Ma “pezzente”… Su quello ho costruito la mia impalcatura: il rossetto, gli abiti, le scarpe, l’apparenza. Quando ho lasciato la redazione, ho portato via quattro stracci, i libri di astrologia, non c’era altro. Il mio lavoro lì era niente. Ho un ricordo di me sul set, il fotografo che mi urla: “Ma non lo vedi il cartellino col prezzo sul vestito?”. Io che gli rispondo: “Ma mi vedi?”. Mi sentivo una foglia al vento».
Un’allegria di troppo di Francesca Tumiati: alle origini di un trauma
Nel racconto si avvicendano gli uomini, i padri delle sue tre figlie, fidanzati, amanti. «Coltivavo un’illusione di onnipotenza che mi portava a non amare nessuno. Quante energie sprecate. Quanta fatica per farsi rincorrere, desiderare, chiedere “Mi vuoi bene?” a chi ti gira le spalle». Dai torti personali la prospettiva del memoir si allarga, prende una piega femminista, radiografando i lembi di una ferita che si tramanda per linea femminile. Francesca s’incupisce:
«Ripercorro le origini di un trauma ancestrale fondato sull’inganno, la pantomima di una famiglia che finge di valorizzare le donne e poi non sa che farsene. Spezza generazioni di leonesse come mia nonna, che ha disunito figlie e nipoti: la più carina e la più cretina. Altro che sorellanza. Ci vorranno secoli per guarirci. Per liberare, dopo di me, le mie figlie e le nipoti che verranno. Vorrei saperle ben piantate sui propri piedi. Non vederle sparire, come è accaduto alle mie zie. Questo libro ha unito le mie ragazze, hanno capito che la mamma non è una cinciallegra, ma una che dice la verità».
Le chiedo cosa resti di quell’allegria, ora che ha bucato tutte le bugie come palloncini. «Resiste, ma è reversibile. Vado a una cena e s’accende la scintilla, la voglia di raccontare. A casa non accendo neanche la tv: il dolore è l’eco di una porta che sbatte dentro di me. Ma se prima usavo un occhio solo, ora sono fin troppo lucida: la verità è solitudine, ti fa il vuoto intorno. La scrittura invece è sempre lì» esclama con la sua risata più squillante, un’impennata di decibel nella cucina rossa e azzurra. «È l’amante che non tradisce, non riserva cattiverie. A volte annaspo, mi sembra di non aver più niente da dire. Ma lei ogni volta torna, con la sua routine confortante». Francesca sorride, e ogni cosa è illuminata.
Crescere con una madre depressa: le conseguenze sui ragazzi
Lo psicanalista André Green definiva la condizione di chi cresce con una madre depressa il “complesso della madre morta”. «Viva fisicamente, ma morta emotivamente, una caregiver assente, spossata, triste e spesso esausta» spiega Martina Migliore, psicologa e psicoterapeuta, direttrice Formazione e Sviluppo presso il Centro Serenis. Un’assenza che può produrre un impatto sullo sviluppo e lo stile di attaccamento. «In età infantile, il bambino potrebbe diventare adulto prima del tempo, sviluppare una personalità codipendente, un disturbo narcisistico della personalità o introiettare la propensione alla depressione. In adolescenza, possono prodursi sentimenti di rancore, rabbia e odio». Sebbene esistano fattori di rischio, «il destino dei figli non è segnato». Il trattamento della madre, la resilienza individuale possono influenzare un decorso positivo, «l’accesso a interventi terapeutici, il sostegno familiare e sociale, le risorse educative possono aiutare a sviluppare capacità di adattamento e strategie di reazione».