L’indagine più lunga, costosa e complessa di sempre, fa ancora discutere, nonostante i tre gradi di giudizio, nonostante la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti, nonostante la prova regina del DNA. Le sbavature e gli errori degli inquirenti (tra imprudenze e atti gravissimi), l’arroccamento della difesa e dell’accusa e il ruolo esercitato dai media, tra innocentisti e colpevolisti, gettano ombre sulla verità processuale. Questo sembra voler dire la docu-serie Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, che per la prima volta porta Massimo Bossetti – e la moglie – davanti a uno schermo. La famiglia di Yara invece non c’è.
Della ricostruzione dei fatti e del valore di questa serie tv parliamo con Stefano Nazzi, giornalista de Il Post, che ha seguito tutte le tappe dell’omicidio di Yara, a cui ha dedicato un episodio di Indagini, il podcast di cui è autore e ideatore.
Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, i dubbi sollevati
Quali sono le prime impressioni che si è fatto dopo aver visto la serie?
«È una serie fatta molto bene, dirompente, realizzata in uno stile che a me piace molto. Trovo che sia molto completa nell’elenco delle cose che accadono e che sono accadute intorno a questo caso. La mia impressione è che comunque sostenga una tesi, ovvero che in questa vicenda i dubbi superano le certezze».
È d’accordo?
«Le incertezze che vengono sottolineate molto bene nella serie sono dei fatti reali e oggettivi: alla difesa dovrebbe essere sempre concesso, in uno stato di diritto, di poter analizzare le prove e quindi i reperti, cosa che in questo processo non è avvenuta. I reperti che prima c’erano, poi non si trovavano più, poi sono stati custoditi chissà come e trasportati chissà come, questi sono tutti dati reali. Poi c’è la storia del video del furgone bianco, che si è scoperto essere un montaggio dei carabinieri e che non erano davvero tutti i passaggi di Bossetti davanti alla palestra in cui si allenava Yara. Resta però che quel mezzo era del muratore di Mapello. Dopodiché rimane un macigno in questa storia: il DNA, che è quello di Massimo Bossetti e a cui si è arrivati attraverso un’indagine molto importante, molto dispendiosa e che a un certo punto non lascia dubbi. È un macigno difficilmente aggirabile: quel DNA sui vestiti di Yara Gambirasio c’era.»
Il ruolo della PM Letizia Ruggeri
La serie getta qualche ombra sulla figura della Pubblico Ministero Letizia Ruggeri. Soprattutto per quanto riguarda il trasferimento dei campioni dei vestiti di Yara che poi di fatto ne ha compromesso definitivamente l’utilizzo da parte della difesa di Bossetti. Secondo lei poteva essere consapevole di questo rischio?
«Questo bisognerebbe chiederlo a lei. Io credo che la PM e la procura fossero convinti che fosse stato già tutto fatto e che non ci fosse nulla da mettere in discussione: le prove erano quelle, c’erano i tre gradi di giudizio. C’è stato una sorta di arroccamento di chi ha sostenuto l’accusa a difesa dei risultati raggiunti. Però questa è una supposizione. Certo è che a livello di immagine, di percezione, questo è un errore, come lo è il filmato del furgone bianco. Su questo non c’è dubbio».
La figura di Massimo Bossetti
È la prima volta che Massimo Bossetti compare davanti alle telecamere. Che profilo emerge di lui?
«Secondo me non fa molto testo. Le interviste a chi è condannato o ha avuto a che fare con una vicenda spesso lasciano il tempo che trovano. È legittimo che lui sostenga la sua tesi e giustamente lo fa, però noi ci dobbiamo basare sui fatti: questi ci dicono che si è arrivati alla condanna con tre gradi di giudizio senza grosse sorprese. Chi guarda la serie poi può valutare e farsi un’opinione. Però una volontà processuale c’è, questo non può essere dimenticato».
In un frammento della serie, compare il giornalista Enrico Mentana che all’epoca dell’arresto di Bossetti parlò di “presunzione di colpevolezza dilagante”: è stato davvero così?
«Questo accade spessissimo. La pressione mediatica esercita una forza sul racconto e si crea un clima particolare attorno a un processo, su questo non ci sono dubbi. Fu emblematico anche che il Ministro dell’Interno (Angelino Alfano ndr) che, subito dopo il fermo di Massimo Bossetti, twittò che il colpevole dell’omicidio era stato arrestato, scavalcando qualsiasi presunzione di innocenza e non rispettando la richiesta di riserbo della procura. Questo dà un’idea di quale sia il clima in Italia attorno a certi casi che hanno molta risonanza, ma è anche normale, non è una cosa solo italiana. Quando ci sono vicende che impattano molto sull’opinione pubblica la pressione dei media, dei giornali, diventano fortissime e possono favorire la creazione di un clima che orienta l’opinione pubblica, mentre le cose, come vediamo anche da questa serie, sono spesso più complesse».
Il caso Yara, i ragionevoli dubbi
A proposito di complessità, la serie individua nella maestra di ginnastica e nel custode della palestra due persone su cui non si sarebbe indagato abbastanza, è così?
«Io credo che si sia indagato su queste persone e penso anche che questo sia l’aspetto più pericoloso di storie come questa: infilare nel tritacarne persone che sono uscite poi di fatto dalle indagini perché si erano già fatti i dovuti accertamenti. Il DNA della maestra di ginnastica sicuramente c’era, ma certo è più logico e razionale che ci fosse quello di una persona che frequentava Yara e la sua stessa palestra, che comunque aveva a che fare con quell’ambiente, piuttosto che il DNA di una persona estranea, cioè quello di Massimo Bossetti. Il materiale genetico è buono sempre o non è buono mai. Questo è il discorso».
E quindi oggi, secondo lei, c’è ancora qualche ragionevole dubbio?
«Credo che i dubbi più o meno grandi in queste storie ci siano sempre e restino sempre. Il risultato a cui si è arrivati con un’indagine così complessa sicuramente non ha precedenti. Quella prova scientifica c’è e non è che tutto quello che è successo dopo intorno a quei reperti può inficiarla. Certo, lo ripeto, e questa è una cosa importantissima, la difesa deve sempre avere la possibilità di poter analizzare i reperti. Questo è un diritto fondamentale che in questo caso non è stato rispettato».
Il ruolo delle docu-serie nella cronaca nera
Docu-serie come Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, sono da considerare prodotti giornalistici?
«Questo è totalmente un prodotto giornalistico perché racconta come sono andate le indagini. Coinvolgere o meno la famiglia di Yara a livello giornalistico non ha rilevanza. Questa è una serie ben realizzata non solo tecnicamente, ma proprio a livello autoriale di racconto: ricostruisce i fatti».
Però viene da chiedersi come potrebbe sentirsi la famiglia della vittima, che ha sempre scelto il riserbo, non crede?
«Questa è una questione che riguarda tutte le vicende dolorose. È vero che la famiglia della vittima può ritrovarsi di nuovo al centro dell’attenzione, però noi dobbiamo anche essere consapevoli che il dolore per una storia del genere comunque non se ne va: ciò che è accaduto rimane, che uno ne parli in televisione o non ne parli. Secondo me le storie, soprattutto se appunto ci sono aspetti da sottolineare, da far emergere o capire, vanno sempre raccontate. Certo, bisogna farlo sempre col massimo rispetto di tutte le persone coinvolte, dei fatti, dei luoghi. In questo caso mi sembra che ci sia stato».
È possibile che la difesa di Massimo Bossetti ottenga una revisione del processo?
«Si può arrivare a una revisione solo se si presentano nuove prove. Queste però devono essere in grado di invertire il risultato dei processi, dei tre gradi di giudizio, quindi allo stato attuale mi sembra piuttosto difficile, se non emergono appunto nuove prove»