La grande Isabelle Huppert è così minuta che sembra pronta a volare via al primo colpo di vento. Fisico sottile, adolescenziale. Tacchi neri altissimi, sui quali cammina leggera. È praticamente impossibile darle i 70 anni che ha compiuto lo scorso marzo, e pure vederne le tracce sul viso quasi struccato, acceso solo dal rossetto e dai capelli color rame. Quando le chiedo come ricordi il suo debutto, a distanza di oltre 50 anni e 140 titoli tra cinema e tv, se ne esce con una battuta sarcastica: «Lei era brava in matematica, eh?». E aggiunge: «In realtà non penso mai al percorso fatto da allora né alla mia prima volta sul set. Perché per me è sempre la prima volta».
Intervista a Isabelle Huppert
Dopo aver presentato alla Mostra del Cinema di Venezia appena conclusa Sidonie au Japon di Élise Girard, storia di una vedova che elabora la perdita del marito durante un viaggio in Giappone, l’attrice francese torna nelle sale il 21 settembre con un altro film che solo lei poteva interpretare: La verità secondo Maureen K. di Jean-Paul Salomé. È la storia vera di Maureen Kearney, sindacalista francese che dopo aver lottato strenuamente per difendere 50.000 posti di lavoro, viene trovata legata a una sedia di casa sua con un’enorme “A” incisa sul ventre e nessun ricordo dell’aggressione. Il mistero si infittisce durante le indagini finché Maureen, da vittima, finisce per diventare la prima sospettata.
Un thriller molto attuale: oltre a non essere credute, le donne che denunciano una violenza vengono anche colpevolizzate. Maureen però è imperscrutabile, al punto da destare sospetti perfino nel marito.
«Ho trovato interessante la possibilità di rendere credibile il dubbio che la circonda, la sua fragilità che sfocia nell’ambiguità. Sono anche contenta che questo film faccia conoscere una storia vera», è tratto dal libro-inchiesta La Syndicaliste di Caroline Michel-Aguirre, ndr.
La protagonista dice: «Non sono una brava vittima». Oggi l’immagine rischia di contare più della verità?
«È un elemento importante della storia. Maureen non corrisponde al cliché della vittima perché non piange, non ha l’aria umiliata. Per questo viene sospettata. Non si dispera neppure davanti al marito: forse perché è molto forte, forse perché mette una corazza per proteggersi dalla sua stessa disperazione».
L’ha incontrata prima o durante le riprese?
«Solo un paio di volte. Era emozionata, consapevole di quello che stavamo facendo. E la regista, pur lasciandomi libertà di interpretazione, ha voluto che le somigliassi fisicamente: Maureen sembra un’eroina di Hitchcock, porta sempre lo chignon e gli occhiali».
La ammira per il coraggio che ha avuto?
«Sì. E ancora di più per avermi regalato un ruolo così interessante», sorride, ndr.
Come lei, Maureen porta sempre il rossetto: è uno schermo dal mondo?
«Mah… Non metti il rossetto per difenderti. Non è un’arma, è solo qualcosa che ti rende felice. Nel film serve anche per rovesciare il cliché: nessuno immagina una sindacalista elegante e truccata, così come non ci si aspetta un’attrice senza make-up. Per fortuna ognuno di noi è diverso dagli altri e dalle aspettative, quindi sarebbe meglio andare oltre le apparenze».
È l’insegnamento di storie come questa?
«Non penso che i film “insegnino” mai qualcosa: soddisfano il nostro bisogno di immaginazione, ci portano altrove. Come leggere un libro o osservare un quadro».
Ama letteratura e pittura?
«Amo soprattutto leggere. E poi la musica. Non quella classica, che a volte mi rattrista. Mi piace il cantautore John Prine, adoro il suo pezzo How Lucky. O la cantautrice francese Pomme. Che era anche il nome del mio personaggio in La merlettaia di Claude Goretta (uno dei film che l’ha lanciata, nel 1977, ndr)».
Ha spesso interpretato donne misteriose, tormentate, senza moralità… È la sua cifra di attrice?
«È una sintesi un po’ riduttiva, ma capisco perché molti mi definiscano attraverso i ruoli più controversi. Detto questo, il cinema non serve a promuovere la moralità, semmai a suscitare interrogativi».
Lei come si definirebbe?
«Magari sapessi rispondere a questa domanda! Quanti di noi sanno chi sono veramente? Spesso lo scopriamo solo vivendo le situazioni che ci capitano più o meno casualmente. Proprio come nei film che preferisco».
Recitare non è un modo per conoscersi?
«Per me no. È un piacere, qualcosa che mi viene facile. Soprattutto quando si tratta di esprimere stati d’animo: gioia, tristezza…».
C’è stato un film che più di altri l’ha portata ad amare il cinema?
«Da ragazzina vidi in tv Quando volano le cicogne di Michail K. Kalatozov, aveva vinto la Palma d’oro a Cannes nel 1957. Un film russo drammatico che mi colpì moltissimo, lo ricordo come fosse ieri».
Come ha scoperto il talento di attrice? È vero che è stata sua madre a incoraggiarla?
«Non so dire come l’ho scoperto, l’avevo e basta: credo sia un grande privilegio. Mia madre mi ha incoraggiata, sì».
Il 23 e 24 settembre è al Teatro Argentina di Roma, con Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, per la regia dell’olandese Ivo von Hove, all’interno del Roma, Europa Festival. Che emozione le dà il teatro rispetto al cinema?
«A teatro hai un rapporto diretto con il pubblico e senti anche il peso di una tradizione antica, di un linguaggio più classico. Io però cerco di essere sempre la stessa, il più naturale possibile».
Pensa di aver trasmesso lei la passione per il cinema ai suoi figli?
(Lolita Chammah, 40 anni, è un’attrice affermata. Anche Lorenzo, 35, e Angelo, 25, hanno girato alcuni film. Sono tutti nati dalla relazione della Huppert con il regista Ronald Chammah, iniziata nel 1982). «Probabile. Trasmetti sempre qualcosa ai figli, nel bene e nel male, anche quando non ci pensi e non te ne rendi conto».
È stato difficile conciliare carriera e famiglia?
«Non più di tanto, almeno non per me. Forse andrebbe chiesto ai ragazzi se è stato difficile dividermi con la carriera».
Ha mai rinunciato a qualcosa per i suoi figli?
«Di sicuro non ho mai rinunciato a loro».