La morte può essere leggera, e puoi accarezzarla con dolcezza, quando incarna un’idea di pace e calma. Quella pace e quella calma che cerca chi vuole morire con dignità. L’ultimo film di Pedro Almodovar La stanza accanto, vincitore del Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, affronta il delicatissimo tema dell’eutanasia: scegliere di essere protagonisti della propria vita fino all’ultimo istante.
E lo fa senza farci ridere né piangere, in un racconto nitido e profondamente estetico, dove l’attenzione ai dettagli, ai colori, alla fotografia, all’arte, volutamente ci cattura per portarci in una dimensione di bellezza e armonia, anche nella morte.
Eutanasia: la scelta di Martha
Le protagoniste sono due amiche, Ingrid e Martha, (Julianne Moore e Tilda Swinton) che si ritrovano in due fasi diverse della propria vita: una all’apice della carriera di scrittrice, l’altra alle prese con un cancro senza speranza. Si riavvicinano dopo anni, rievocando frammenti della loro vita insieme, sorridendo e anche scherzando, ma è soprattutto lei, Martha, che in un flusso di ricordi ripesca le sue esperienze più forti legate al lavoro di reporter di guerra e al difficile rapporto con la figlia. Proprio come accade quando ti avvicini alla fine e tutto si rimescola: Martha infatti vuole morire prima che sia la morte a decidere per lei, ma non vuole farlo da sola. E così Ingrid le sta vicino nel suo ultimo mese di vita.
Non c’è sofferenza nell’eutanasia
Il film evita ogni brutalità e visceralità della sofferenza, che si intuisce soltanto nel volto scavato di Martha e nella sua magrezza assoluta, su cui, spietata e bellissima, si posa una luce maestrale lungo tutto il film. Una fisicità, quella di Tilda Swinton, che è anche un manifesto contro l’estetica canonica della bellezza femminile e contro l’essere donna in quanto madre: per le sue scelte professionali, Martha non ha potuto fare la madre come la figlia (e il mondo) si sarebbero aspettati da lei. E in un flusso di ricordi e di pensieri condivisi con Ingrid, arriva il momento in cui la diagnosi senza speranza spinge Martha a cercare la dolce morte.
L’eutanasia nel film è lontana dalla paura
Ma la morte non ci fa paura, e non fa paura neanche a chi la cerca: niente aghi né punture, e neppure medici. La soluzione che Martha sceglie è una pillola, costosissima, recuperata nel dark web. Uno strumento che esiste realmente, difficile da reperire e che per questo sposta l’attenzione sul fatto che in fondo, oggi, per l’Italia e non solo, l’eutanasia resta per pochi eletti: chi può permettersi di percorrere le vie dell’illegalità o chi può uscire dal Paese e “investire” in quest’ultima fase della propria vita. Una sorta di denuncia, quella del regista, che ci restituisce il senso di un diritto fondamentale, quello di scegliere come morire, che invece ci viene negato.
Un diritto per pochi eletti
Un diritto per pochi eletti, legato al potere economico e culturale, all’appartenere a un’elite che può conservare la propria dignità di essere umano fino in fondo. Per gli altri, no. Per gli altri c’è la sofferenza di essere imprigionati in un corpo che non ti appartiene più, com’era accaduto a DJ Fabo, che con l’intervento dell’associazione Coscioni riuscì a mettere in atto il suo proposito di eutanasia. O come recentemente è stato per Federico Carboni, che ha atteso due anni prima che gli venisse riconosciuto il diritto di morire, qui in Italia.
Eutanasia: un diritto dentro al proprio progetto di vita
Eppure dovrebbe essere accettabile per tutti noi poter includere nel proprio progetto di vita anche la morte. Dovremmo tutti, come Ingrid nel film, poter evolverci dalla nostra paura innata della morte, verso una serena accettazione del nostro fine vita. Il film si chiude con la leggerezza di Ingrid e il suo sorriso, su primi piani senza botox che scavano nelle rughe esistenziali delle protagoniste, in un’apertura verso il futuro e il cambiamento, dentro a una continuità di cui serenamente anche la morte fa parte.