Può un libro fare la differenza? Sì, decisamente, quando si tratta di violenza sulle donne. Un fenomeno trasversale, diffusa in tutte le culture di tutto il mondo. Tant’è che i dati sono uniformi: a ogni latitudine, una donna in media viene uccisa ogni 3 giorni. Ma non c’è solo la violenza estrema, quella che conduce alla morte. Le donne sono colpite anche con le parole: quelle di troppo, che sottodimensionano il problema quando provano a denunciare, che lo negano, che relativizzano. O quelle che mancano, quando non riusciamo a farci chiamare avvocata, rettrice, o a farci promuovere e pagare di più.
Libri per capire la violenza sulle donne
Qui trovi una piccola rassegna di libri che possono aiutarti a capire di più il fenomeno, le cui radici sono prima di tutto culturali. Per questo un libro può fare la differenza.
Non chiamatelo raptus
Non ci sono raptus quando un uomo uccide una donna in una dinamica di coppia. Nei femminicidi lo scoppio d’ira non esiste: esiste la prevaricazione di un genere sull’altro. Eppure ancora oggi spesso i media tracciano pericolose rappresentazioni, il cui filo conduttore è proprio l’asimmetria che governa la nostra società. Questo racconta il libro spiazzante e tagliente di Stefania Spanò, in arte Anarkikka, autrice, vignettista, copywriter, illustrAutrice grafica, graphic journalist, esperta di comunicazione. Ma soprattutto un’attivista che ha scelto l’arte come mezzo per sensibilizzare la collettività sulla violenza di genere. «La violenza non è raptus, non è il gesto di un folle, non arriva all’improvviso. La violenza deflagra quando le donne denunciano, quando si allontanano, quando si emancipano. La violenza riguarda tutte e riguarda tutti. La donna è ancora oggi una proprietà, un oggetto di cui disporre, siamo un corpo a disposizione del maschile». E così il libro si sgrana tra vignette irresistibili – dove Anarkikka, col suo caschetto tagliente, traccia i contorni spigolosi di una realtà piena di discriminazioni contro le donne – e stralci di articoli di giornale e agenzie, che raccontano la nostra Italia, divisa tra una politica che guarda al passato e le giovani generazioni, avide di sapere e di combattere per una società più equa.
Con la prefazione della sociolinguista Vera Gheno.
Sulle donne – La parola agli uomini. Il punto di vista maschile sulla parità di genere
Ha senso dire avvocata e non avvocato? Che valore hanno le leggi che impongono le quote rosa? E che valore ha la certificazione di genere nelle aziende? Temi caldi, oggi, su cui è importante riflettere se vogliamo indagare le origini della violenza sulle donne, che affonda le radici nella disparità ancora profonda tra i sessi. Ilaria Li Vigni, avvocata e autrice (suo anche il libro Donne e potere di fare) pone queste (e altre) domande a una serie di uomini, nomi illustri del mondo del lavoro (politici, giornalisti, giuristi, imprenditori), che rispondono tracciando scenari presenti e futuri.
L’autrice indaga con occhio esperto e obiettivo la storia e i principi cardine della democrazia paritaria, per dimostrare come ancora non si sia pienamente realizzata. Perché è ancora difficile l’inclusione femminile? Come raggiungere l’equilibrio nella convivenza tra i generi? Dove intervenire per valorizzare l’autostima delle donne? Fino a quando ci sarà differenza retributiva? Cosa fare per concretizzare la parità in tempi di post pandemia? Le risposte evidenziano varie strade da percorrere, con coraggio: modifiche normative da attuare, differenze retributive ancora in essere, politiche a tutela del lavoro agile e della famiglia da migliorare, per raggiungere la parità effettiva.
Contributi di: Marco Bentivogli, Fabrizio Capaccioli, Stefano Cerri, Carlo Cottarelli, Giuseppe Cusumano, Piergiorgio Danelli, Ferruccio de Bortoli, Enrico Derflingher, Marco Giommoni, Massimo Linares, Francesco Magnani, Arturo Maniaci, Jacopo Pensa, Giuliano Pisapia, Marco Pontini, Francesco Portolano, Ferruccio Resta, Stefano Scaroni, Nino Sunseri, Enrico Vanin, Nicolò Zanon.
Le mie catene – Legame, forza, libertà
Un diario intimo e sincero, senza filtri, che racconta la storia di Claudia De Rosa, tra violenza economica e psicologica, fino alla libertà attraverso la presa di consapevolezza e il lavoro. L’autrice attinge al suo dolore, di donna e mamma, e lo trasforma con creatività in un brand di successo. Nasce così PIN UP Gioielli, i gioielli calamita: orecchini, bracciali e anelli che si ispirano alle catene delle donne, quelle che gli altri ci chiudono intorno, quelle in cui ci lasciamo cingere, quelle che non vogliamo vedere, quelle che vediamo ma non riusciamo a rompere, quelle che decidiamo di spezzare con straordinaria forza ed energia. Com’è accaduto a lei, fautrice della sua rinascita e ora simbolo di crescita interiore, libertà e indipendenza. Un libro per tutte le donne che stanno vivendo una situazione di violenza, per ispirarle a trovare il coraggio e la libertà di essere se stesse.
Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia
La morte di Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dal suo fidanzato, Filippo Turetta, ha segnato uno spartiacque tra chi sceglie il silenzio e si chiude nel suo dolore per il femminicidio vissuto in famiglia, e chi invece a quel dolore dà forma, la forma più urlata. E così, dopo le parole della sorella Elena che hanno scosso l’Italia e portato in piazza migliaia di persone, arriva il libro del padre, Gino. Entrambi, padre e sorella di Giulia, hanno intaccato lo stereotipo del dolore e della perdita essersi mostrati contriti e addolorati. Ma il dolore prende forme diverse e questa famiglia ha scelto di trasformarlo in responsabilità condivisa. «Quando tutto era finito, la voglia di chiudermi in me stesso era tanta» ha raccontato Gino Cecchettin, «ma poi ho trovato forza grazie a Giulia. Ogni azione che faccio cerco di pensare cosa avrebbe fatto lei. Ho cercato di mettere nero su bianco cosa ho provato, le mie sensazioni. È forse il modo migliore di elaborare il lutto, si arriva prima all’elaborazione dei propri pensieri. Aiuta anche a lasciare qualcosa di utile per gli altri». il suo libro Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia che servirà a finanziare una nuova fondazione per la lotta alla violenza di genere.
Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più
La pratica del dire Stai zitta non è solo maleducata, ma sessista. Nessuno ha mai sentito una donna dire a un uomo stai zitto. Su questo principio si snoda uno dei grandi classici della scrittrice Michela Murgia, da leggere per capire come le radici della violenza siano prima di tutto culturali, e si esprimano col linguaggio che, negandole, uccide le donne con le parole. Scrive l’autrice: «Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti “dovremmo dire anche farmacisto”. Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un’ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno».
Artemisia
Di Anna Banti, straordinaria autrice morta nel 1985 a 90 anni, definita “strana e femminista” già alle scuole medie, non si può perdere Artemisia, uno dei suoi più celebri ritratti di figure femminili, il libro che creò il mito della pittrice caravaggesca. Il libro è un immaginario dialogo a due, da cui emerge la figura iconica di Artemisia che, violentata, sfidò la morale comune denunciando il suo aggressore, finendo per diventare vittima due volte nel processo per stupro nell’Italia oscurantista del 1638. La storia dello stesso romanzo, o meglio, della sua composizione, si intreccia alla storia di Artemisia. Nella primavera 1944, infatti, Anna Banti ha quasi ultimato il suo racconto biografico, ma in agosto dello stesso anno il manoscritto va distrutto nei bombardamenti tedeschi su Firenze. È allora grazie a un moto di “ostinazione accorata” che la scrittrice torna tenacemente alla ricostruzione della sua eroina. Una “pittrice valentissima” ma soprattutto “una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi”.