Quanto dura il dolore provocato da una guerra? Quanto tempo serve ai sopravvissuti per riemergere dall’orrore, alle famiglie spezzate per rimarginare il tessuto connettivo ferito? Può volerci tanto, se non viene fatta giustizia, risponde Agnese Pini, 37 anni, direttrice dei quotidiani del gruppo MonRif (Giorno, Nazione e Resto del Carlino con il dorso nazionale in comune, Quotidiano Nazionale). Nel suo libro d’esordio, Un autunno d’agosto (Chiarelettere), la giornalista ripercorre infatti la storia dell’eccidio nazista di San Terenzo Monti, uno dei massacri che si consumarono lungo la Linea gotica nell’estate del 1944.
Il libro di Agnese Pini “Un autunno d’agosto”
«È una storia di umanità e di amore perché, soprattutto nei momenti in cui vita e morte sono così vicine, l’umanità e l’amore escono più forti che mai» così Agnese Pini, descrive le vicende narrate nel suo romanzo d’esordio Un autunno d’agosto (Chiarelettere), che ricostruisce la strage nazista di San Terenzo Monti (MS), del 19 agosto 1944, in cui furono massacrati 159 civili. Un’indagine vivida e affettuosa che, partendo da una ferita familiare, fa luce sulla memoria intima e collettiva su ciò che sono stati il fascismo e la Resistenza.
La strage di San Terenzo
Nella strage di San Terenzo, in cui perirono 159 abitanti del borgo della Lunigiana, c’era anche la sua bisnonna. L’autrice ricorda di averne spesso sentito parlare da bambina: in quei momenti gli adulti, per pudore e rispetto, abbassavano la voce. «Sapevo tutto e tutto mi si era conficcato dentro, eppure era come se non mi riguardasse» scrive. «Quando non hai colpevoli e un processo giusto, come nel caso di mia nonna, che in quell’eccidio perse la madre, quando le uniche parole che ti vengono dette sono: “dimentica, vai avanti”, rielaborare e rievocare è complicato» rivela ora. E allora il lutto, spiega Pini in questo toccante romanzo-inchiesta, diventa un grumo denso che s’innerva tra i gangli famigliari e le generazioni.
Racconta di aver scoperto dai racconti di sua nonna il senso vero della paura. «Quand’è morta avevo dieci anni: ripensandoci, mi colpì la naturalezza con cui riusciva a rievocare, in me bambina, il senso profondo di quelle ferite. C’è questo pudore nelle vittime, nei sopravvissuti, quasi una vergogna per quanto è accaduto, che li spinge a rimuovere. Verso la fine della sua vita, però, tornare a quei ricordi per lei era diventato quasi un dovere e l’urgenza di non far morire con sé quella testimonianza importante rendeva il suo racconto più vivido».
Le donne sono le protagoniste
La storia che riporta sotto i riflettori è in gran parte una vicenda femminile. «L’ho realizzato alla fine, le donne sono le vere protagoniste: quelle che muoiono, come la mia bisnonna, e le sopravvissute, che hanno mostrato una forza, un’intelligenza e un coraggio inauditi. E hanno saputo tenere insieme, con lucidità e tenacia, una comunità lacerata dalla ferocia nazista».
Perché questo processo di riappropriazione è stato così difficile? «Quando nell’ingiustizia e nel lutto non viene offerta la possibilità di riconciliarsi almeno con la verità storica, che in quel caso coincideva con quella giudiziaria, il trauma è duplice. Le vittime dei crimini di guerra sono quasi sempre contadini, analfabeti, privi di mezzi per difendersi o invocare la verità».
Il problema è che l’Italia non ha mai avuto la sua Norimberga? «È così che il trauma intimo è diventato collettivo. Se questo Paese, dopo 80 anni, è ancora profondamente diviso sulla memoria di quel periodo, è anche perché allora la ragione di Stato, che imponeva di ricostruire presto una repubblica, una democrazia, è andata nella direzione di mettere una pietra sopra quanto era accaduto. Il risultato è una memoria frantumata, la nostra incapacità di avere un giudizio sereno e univoco anche su cosa è stato il fascismo».
Che quadro s’è fatta? «Nell’estate del ’44 lo stesso battaglione della 16ma divisione SS, comandata dal maggiore Walter Reder, tracciò una lunga scia di sangue e sterminio lungo l’Appennino, provocando quasi duemila morti. Fu una strategia precisa, pensata per fiaccare la resistenza civile. Per questo le polemiche sui partigiani stanno a zero. Accanto alla resistenza armata, bisogna però annoverare anche quella civile, di contadini e pastori che si sono trovati l’invasore a casa e hanno pagato un prezzo altissimo. Senza di loro, senza i partigiani che con gli alleati hanno cacciato i nazisti dal nostro territorio, non avremmo avuto gli 80 anni di pace di cui ancora godiamo. Io probabilmente non farei il mestiere che faccio e non sarei qui a raccontarle questa storia».
Una verità, questa, chiusa per 70 anni in quello che fu definito “l’armadio della vergogna”. «All’inizio degli anni Duemila, il procuratore militare di La Spezia, Marco De Paolis, si trovò sulla scrivania alcuni fascicoli rimasti nascosti in un armadio fino a pochi anni prima, quando furono desecretati in concomitanza col processo per le Fosse Ardeatine. Contenevano anche migliaia di pagine di ricostruzione delle stragi commesse dai nazisti e dai fascisti italiani. De Paolis è l’unico funzionario che ha ritenuto necessario fare il suo dovere: la maggior parte dei carnefici e dei sopravvissuti erano anziani o morti, ma la giustizia non ha una scadenza, il suo lavoro paziente e ostinato ha restituito dignità a vittime e sopravvissuti».
Il libro si apre e si chiude con la stessa domanda: come si sopravvive all’orrore? «La risposta è: facendo tutti, per quanto è possibile, la propria parte. Questo hanno fatto gli abitanti di San Terenzo: sopravvivere e ricostruire, ciascuno secondo la propria età, il censo e il grado d’istruzione. In senso lato, anche oggi la Resistenza si sintetizza in questo: sentirsi chiamati a fare il proprio dovere, fino in fondo. Per me ha significato tornare a San Terenzo, malgrado le resistenze iniziali. A un certo punto capisci che non ti puoi sottrarre, perché, diversamente, non capirai mai davvero, fino in fondo, neppure te stesso».
È cambiato lo stato d’animo con cui torna da quelle parti? «Se prima non ci andavo per paura, ora tornarci mi riempie il cuore di affetto profondissimo. È una sensazione piena di dolcezza per quella parte della famiglia che avevo messo un po’ via, per chi è sopravvissuto insieme ai miei familiari, ma anche per coloro che mi hanno accompagnato in questo viaggio. Perché all’inferno non bisogna mai andarci da soli».