L’immediatezza. È molto brava Lidia Ravera nel rendere vivi i suoi personaggi. Anche Seymour («si dice Siimour»), protagonista del suo nuovo romanzo Un giorno tutto questo sarà tuo (Bompiani), ha risuonato per giorni nella mia testa con i suoi discorsi, le sue incertezze, la sua verità. Seymour è un 15enne disadattato (in realtà un cinico osservatore di tutto quel che lo circonda, compresi gli adulti e le loro vanità), unico figlio maschio di un 70enne scrittore vanesio con 3 ex mogli e 4 figli di età compresa tra i 50 e i 2 anni. Lidia Ravera ci fa entrare nella sua testa, ci mostra il mondo con i suoi occhi, ci fa conoscere il suo rapporto col padre Giovanni e con le “mamme”: Anna, coetanea del padre e un po’ fricchettona, è la sua preferita; Alison, la 46enne madre biologica americana bionda e rifatta, è per lui insopportabile; Sinty, l’ultima, bellissima con un passato da tossicodipendente e ora su una sedia a rotelle, è una 30enne con la testa da eterna adolescente. Poi ci sono le “altre” che ruotano attorno al padre e che sono all’origine di una serie di accuse infamanti.
Il nuovo romanzo: Un giorno tutto questo sarà tuo
Lidia Ravera, 73 anni, ci spiazza: dopo avere raccontato la terza età negli ultimi lavori, ora rivolge lo sguardo all’adolescenza. Si mette nei suoi panni. E lo fa benissimo. «Volevo uno sguardo pulito, che ha cominciato a vivere da poco. Un adolescente non ha tutte le scorie che abbiamo noi. È lo sguardo del bambino che dice “Il re è nudo” quando nessuno osa dirlo» mi spiega. «È anche il coraggio dei principianti. E poi, ovviamente, c’è la sfida: questo è il mio 30esimo romanzo, dopo tutto questo tempo devo alzare ogni volta l’asticella. Nel precedente (Avanti, parla, ndr) entravo nella prospettiva di un’assassina che ha ucciso da giovane. Qui ho fatto un doppio salto mortale: una femmina vecchia guarda con gli occhi di un maschio giovane. Fa molto bene entrare nella testa degli altri».
L’intervista a Lidia Ravera
Come ci è riuscita?
«Dentro di noi c’è tutto: il vecchio, il giovane, l’uomo, la donna, il coraggioso, il vigliacco, l’avventuriero, la maestrina di paese. Ci sono tutti i personaggi, basta imparare a “pescarsi” dentro. Per quanto riguarda me, l’adolescente è molto presente, è dentro di me e non se ne vuole andare».
Perché un maschio e non una ragazza?
«Perché il romanzo affronta anche il #MeToo, un tema che mi turba molto: aveva più senso che il protagonista fosse un maschio».
In che senso la turba il #MeToo?
«Enfatizza gli effetti invece di curare le cause. Le cause risiedono nell’assenza di potere delle donne, che le mette in balìa degli uomini che ce l’hanno. Basta anche un piccolo potere: quello del professore se sei una studentessa, del datore di lavoro se sei un’impiegata, del regista se sei un’attrice. Siccome le cause sono dure da estirpare, ci focalizziamo sugli effetti».
Quindi è importante denunciare.
«Sì, va benissimo denunciare, ma dobbiamo andare avanti. A me interessa che le donne abbiano uguale peso nella differenza. Che siano equipollenti».
Oltre al #MeToo, in questo libro c’è anche una riflessione sul narcisismo della nostra società e in particolare degli adulti.
«Ormai ha preso terreno, si mangia tutto. Mi sono divertita a raccontare uno scrittore di successo, vanitoso, che – nonostante abbia 70 anni – è ancora concupito e capace di sedurre: cosa che a quell’età per noi donne è invece impossibile. Nel finale si chiarisce che vincono sempre loro: i maschi».
Poi c’è la famiglia disfunzionale e allargata.
«È una realtà, questa. Abbiamo conquistato il diritto di divorziare, di diventare madri solo se lo vogliamo. Ma le derive non sempre fanno bene ai figli: è onesto dirlo».
E questo padre volubile…
«Si è sposato 3 volte, è sempre gentile con le mogli, non le lascia finché loro non si trovano un altro uomo. È l’esempio di un uomo di successo oggi. Un principe della piacioneria. Poi, per carità, è un uomo intelligente».
Mentre scriveva di narcisismo e di scrittori si è tirata in causa da sola?
«Certo che sì. Seymour guarda anche me. Io non sono Anna, la prima moglie 70enne, che è meno narcisista di me: io sono Giovanni, lo scrittore. Sono Giovanni che va in tv perché fa immagine e sta attento alla luce giusta che nasconda la ruga, a parlare in modo elegante. Bisogna avere il coraggio di guardare dentro se stessi».
Dice che Anna, la prima moglie, non è lei. Però c’è un po’ di lei.
«Adoro la sua professione: fa la bibliotecaria terminale. Recupera i libri delle persone decedute che altrimenti andrebbero al macero e li distribuisce alle biblioteche. Fa un’opera benefica ma oscura. Io faccio la scrittrice, lavoro per il teatro e per il cinema, sono quella di Porci con le ali. Come Giovanni, ho avuto da giovane un successo che mi ha fatto capire tante cose, tra cui il fatto che il successo non dà né la felicità né la serenità. L’ho scoperto a 25 anni, ed è un enorme vantaggio perché non l’ho più cercato. Oggi mi ritengo libera di scrivere i libri che sento senza pensare a come andranno».
Questo romanzo da che esigenza nasce?
«Da quello che è successo a una persona che conosco: è stato accusato di molestie ingiustamente. Le accuse false da parte di una donna non fanno bene alle consorelle né alla causa. Perché poi si corre il rischio di non essere credute».
Ma quindi il #MeToo?
«Non posso essere tacciata di insensibilità al #MeToo, perché in passato sono stata oggetto di pesantissimi episodi: avevo 25 anni, avevo scritto un libro che iniziava con la parola “cazzo”… Può immaginare. Sono dalla parte del #MeToo sempre, perché ha scoperchiato quel vaso. Dopodiché, però, andiamo alle cause, il potere di cui parlavo prima, altrimenti ci si rivolta contro».
Il titolo a cosa si riferisce?
«A quello che lasciamo ai giovani, al loro futuro. C’è un intero capitolo, alla fine. Per la prima volta ho deciso di mettere ai margini quello di cui mi sono occupata ultimamente (l’ageismo, ndr) e di provare a raccontare questa angoscia sottile che abbiamo tutti: è il grande tema politico. E spero che i politici se ne accorgano prima che sia troppo tardi».