«Affacciarsi sulla lunga strada che si stende dietro di te è temerario. Sei assediata da decenni di domande e l’età non porta risposte». Con 74 anni e quasi 40 libri sulle spalle, a partire da quel Porci con le ali che scrisse nel 1976 a quattro mani con Marco Lombardo Radice, manifesto di una generazione, sassolino nella palude del costume italiano, Lidia Ravera si guarda indietro e pubblica un’autobiografia femminista, Volevo essere un uomo (Einaudi). Un libro che è anche la storia culturale dell’Italia che ha attraversato, contestato e abitato. Dribblando senza sconti tra questioni pubbliche e private, tra politica e vicende personali, Ravera rilegge la storia femminile recente e si confessa.

Volevo essere un uomo, il nuovo libro di Lidia Ravera

Definisce i maschi “suprematisti genetici”, l’eterna misura del suo scontento.

«Questo libro è la cosa più femminista che ho scritto nella mia vita. E rivela una verità. Tutto è iniziato quando mia madre mi raccontò che voleva un maschietto mentre, disgrazia, ero nata femmina. I genitori dell’epoca non pensavano all’umiliazione di una bambina che si sente dire una frase del genere: per tutta la vita, coerentemente, ho invidiato gli uomini. Che hanno una vita più facile, perché sono maschi nel patriarcato. È inutile far finta che non sia più così: abbiamo ancora l’80% delle fatiche domestiche sulle spalle, oltre al lavoro fuori, e siamo ancora considerate con sufficienza».

Tutte le mie età

Volevo essere un uomo l’ha scritto in forma di diario, una lunga lettera a se stessa. Perché?

«Perché, da quando sono veramente vecchia, parlo spesso alle me stesse passate. Ce ne sono tante. Mi rivolgo volentieri alla me bambina, all’adolescente, mi dà sui nervi la 40-50enne».

Come mai?

«Sono stati anni bui: non ero più giovane, non ancora vecchia, sempre scontenta. Ho scritto anche un libro che ha venduto come i panini: Né giovani né vecchi».

Ha ritrovato il buonumore, poi?

«Invecchiare mi ha messo addosso molta allegria. E pensare che ne ho avuto paura per tutta la vita. Ad appena 26 anni scrissi un pensoso romanzo, Ammazzare il tempo, con un senso di tragedia per la finitezza della condizione umana che non fa bene alla salute. Scoprire che la vecchiaia non è quella cosa che tutti ci raccontano mi ha reso felice. Tra le tante riflessioni, ho scritto Age pride : quello era un libro di battaglia, mentre questo rappresenta la faccia più confidenziale, personale».

Lidia Ravera: in Volevo essere un uomo racconto anche la mia famiglia

Qui scava impietosamente nella storia della sua famiglia.

«Appartengo a una famiglia senza storia: non sono figlia di proletari, che in certi anni della mia gioventù avrebbe fatto punteggio, né di ricchi, anche quello un vantaggio. Eravamo uguali a tanti,con l’ossessione dell’essere migliori di altri, del limitare il mondo a noi quattro. Per fortuna c’è stato il femminismo, il Sessantotto, così sono uscita di casa e ho visto che là fuori non volavano le pallottole. Come diceva Flannery O’Connor, “se sei sopravvissuto alla tua infanzia, sei in grado di scrivere un romanzo”».

All’infanzia e a sua madre.

«L’incipit di Age pride recita “Non ho mai visto mia madre felice”, che è anche un perfetto endecasillabo. Ed è vero, a causa sua ho avuto paura di crescere e maturare, ho pensato che il tempo passasse per mortificarmi. Quando invece ci ho messo i piedi dentro, nella vecchiaia, ho realizzato che ero rimasta la stessa, ma più esperta, sicura, compassionevole».

La rivoluzione femminista nei romanzi di Lidia Ravera

Forse anche più libera da quella che chiama la gabbia della bellezza.

«Quello ancora no. Faccio gli esercizi davanti allo specchio, mi dico che non devo sputarci sopra o coprirlo di drappi neri. È un lavorone, perché, come diceva Jessica Rabbit, siamo state disegnate così. Ci è sempre stato chiesto innanzitutto di essere carine. Poi si poteva anche essere brave, intelligenti, eventualmente scrivere dei bei romanzi, in second’ordine».

Scrive che si diventa femministe a partire da un disagio. Lei lo è diventata, «con la debolezza indotta dal senso di esclusione e con la forza generata dalla volontà di superarla… per sopravvivere».

«Eh sì, l’ho raccontato in tanti romanzi. Le mie protagoniste erano sempre inquiete, ma implacabili. Credo siano cambiate molto le donne, anche quelle che non lo sanno. Merito pure del lavoro che abbiamo incominciato negli anni ’70 e ancora non abbiamo portato a termine. Sa qual è la cartina al tornasole del mancato traguardo della rivoluzione femminista? Proprio la vecchiaia, che ha due pesi e due misure, come sostiene il famoso saggio di Susan Sontag».

Quell’andare a scavare nei matrimoni, nei letti, nelle famiglie ha stravolto la vita di molte di voi.

«Abbiamo pagato prezzi alti per la nostra volontà di cambiare le relazioni, però abbiamo anche ottenuto risultati non da poco: le nuove venute nemmeno se lo immaginano cos’era nascere donna a metà del secolo scorso. Erano anni in cui, per esempio, l’aborto in Italia era illegale. Quel patrimonio di grandi pensatrici ora è relegato a una conventicola, ma sono state cruciali per la consapevolezza delle ragazze di oggi. Alludo a quelle della quarta ondata, che hanno riscoperto, per esempio, Carla Lonzi».

Le giovani femministe di oggi

È meno indulgente con le esponenti della terza ondata.

«A me non interessa il femminismo dell’uguaglianza, l’impresa di quelle che individualmente prendono a testate il soffitto di cristallo. Non mi interessa avere una Presidente del Consiglio che non è lì per affermare il nostro diritto a non pagarla in termini di sfruttamento o svalutazione. Io sto aspettando una donna che arrivi sull’onda delle lotte delle altre e non l’ho ancora vista».

Il romanzo si chiude con una mano tesa al decisivo cambio di paradigma abbracciato dalle giovani femministe di oggi.

«Sono un’eterna apprendista, cerco di imparare, anche dalle donne nate 50 anni dopo di me: queste ragazze sono a proprio agio e perfettamente padrone di un mondo nel quale io arranco tuttora. Già per questo mi interessa il loro punto di vista, il loro transfemminismo, non ho fretta di giudicare, cerco di capire. L’hanno scritto anche su una targhetta in una piazza modenese, mi pare: finché ci sarà al mondo una donna discriminata in quanto donna, non mi sentirò libera».

Lidia Ravera: dopo Volevo essere un uomo, sto già scrivendo il prossimo libro

Come è uscita da questo lavoro di scavo?

«A me la scrittura serve tanto, è terapeutica. E mi dà gioia sapere che, curando me stessa, curo anche le altre. Avevo paura di guardarmi indietro, perché ho questo passato così lungo; e anche avanti, perché il futuro è troppo breve. Mi sto allenando a vivere il presente, che è un po’ la mia croce».

In che modo?

«Sto imbastendo i primi capitoli del prossimo romanzo. Non so stare senza un cantiere aperto. La scrittura è l’unica maniera di sentirmi vivere, se no le giornate mi scappano: è sempre sera, sempre venerdì, sempre la fine del mese. Quando scrivo, invece, mi insedio nel tempo. Anche la mia nipotina mi insegna a stare nell’oggi. Quando giochiamo, stabiliamo un set: io ero, tu eri. E lì dentro c’è la carta del presente, cioè il piacere, qualcosa che mi accorgo di non aver mai assaporato».